Esclusiva classificazione di Pietro AnselmiL’aspirazione di sportenote tesa a pubblicare la catalogazione dei primi dieci ex pugili professionisti italiani di ciascuna categoria di peso, grazie alla passionale capacità dell’amico Pietro Anselmi, approda nella divisione di peso dei leggeri. La sua scrupolosa investigazione tra gli innumerevoli italiani che hanno militato nella categoria dei pesi leggeri, unitamente alla sua abilità narrativa, diventa conoscenza della parte migliore della divisione di peso trattata in questa puntata. Ecco la nona "sfornata". Con un click sul nome di ciascun pugile si accede al record. Buona lettura. §§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§ Pesi leggeri, ovvero una categoria che in Italia ha espresso il maggior numero di campioni, alcuni dei quali a malincuore lascerò fuori da questa classifica. Anche in questo caso la partecipazione in categorie diverse obbliga ad una scelta forzata: Duilio Loi avrebbe potuto benissimo stare tra i pesi welter così come Giovanni Parisi è stato valido anche tra i superleggeri. Vittorio Tamagnini sarà classificato tra i pesi piuma. Come detto più sopra molti campioni hanno onorato questa categoria con le loro gesta. Occorre dire che a parte i primi tre che ho classificato, tutti gli altri potrebbero benissimo scalare o salire di un posto il che non cambierebbe il loro valore. Solo per la decima posizione i pretendenti sarebbero diversi e vorrei almeno ricordare i loro nomi. A parte Otello Abbruciati, tutti gli altri son stati campioni europei: Ascenzo Botta, Bruno Bisterzo, Aldo Minelli, Franco Brondi, Giuseppe Gibilisco, Lucio Cusmà e Antonio Renzo.
Al primo posto pongo Duilio Loi. La scelta è obbligata per quello che per molti è considerato il miglior pugile, pound for pound, d’Italia. Duilio Loi nacque a Trieste da padre sardo e si trasferì a Genova con la famiglia dopo la perdita del genitore, deceduto eroicamente in mare per il siluramento della nave di cui era comandante. Nel capoluogo ligure iniziava la boxe sotto le cure del maestro Dario Bensi. La sua stagione dilettantistica fu breve, quindi, passato al professionismo, Milano divenne la sua città d’adozione. Secondo il mio parere è stato uno dei più grandi pugili italiani di tutti i tempi, sicuramente il migliore tra quelli formatisi in Italia. Sotto il profilo squisitamente tecnico qualcuno gli è stato superiore ma nessuno ha avuto una carriera pari alla sua. Praticamente imbattuto in centoventisei match, con sole tre sconfitte subite, ampiamente riscattate nelle rivincite. Pugile eclettico, è stato grande perché, come nessun altro, sapeva adattarsi a qualsiasi tipo di avversario ed imporsi con la sua spiccata personalità. Piccolo di statura, dotato di scatto felino, in possesso di tutti i colpi del manuale tecnico pugilistico, intelligente, sul ring si accontentava di vincere di misura senza strafare. Di lui non sapremo mai quali fossero i suoi limiti. Per questo la tifoseria milanese, sempre in gran numero ai suoi combattimenti, in pratica si divideva in due parti, quella che lo osannava incondizionatamente e quella che lo avrebbe voluto vederlo perdere almeno una volta. Cosa che avvenne solo nel suo penultimo combattimento contro Eddie Perkins ma che seppe riscattare nel match successivo quando riconquistava il titolo mondiale dei superleggeri per concludere la carriera da campione mondiale. Pochi hanno avuto il coraggio di abbandonare la boxe nel momento del trionfo. E’ stato grande anche perché seppe dire basta al momento giusto, senza ripensamenti, e a non trascinarsi sui quadrati in un mesto fine carriera come purtroppo è capitato a molti. E’ stato grande in seguito quando ha saputo mantenere il distacco tra il campione che fu e gli avvenimenti tragici della sua vita privata. Molti i titoli conquistati in carriera, dalla corona italiana ed europea dei leggeri, continentale dei welter ed il mondiale dei superleggeri. Per anni miglior peso leggero del mondo non ebbe mai l’opportunità di un combattimento per il titolo. Solo con la reintroduzione della categoria dei welter junior, che agli americani poco interessava, ebbe l’opportunità di arricchire il suo stato di servizio con un titolo mondiale. Sul ring sapeva fare di tutto; decideva come e quando finire un combattimento, regalando agli sportivi italiani, ed in particolare ai milanesi, pagine pugilistiche indimenticabili come i combattimento con Garbelli e Visintin, quelli con lo sterminatore dei pugili italiani Ray Famechon che solo con la sua grande classe seppe domare e Seraphin Ferrer. Memorabile fu la punizione inflitta al “Torero” spagnolo Fred Galiana, il quale spavaldamente scese a Milano con dichiarazioni poco rispettose verso il campione che non gli perdonò lo sgarbo. Duilio mise sul quadrato tutta la sua cattiveria agonistica, pestando lo spagnolo come e quando voleva. Avrebbe potuto finirlo in due rounds ma lo tenne in piedi con sapiente gioco di braccia al limite del regolamento. Con un colpo lo teneva ritto e con l’altro picchiava duramente fino al k.o. della sesta ripresa. Il nostro, quando voleva, aveva il pugno risolutore, ma per i motivi sopra descritti nel suo curriculum figurano pochi combattimenti vinti prima del limite. La sua categoria principale fu quella dei pesi leggeri che onorava con il titolo italiano e quello europeo. Respinto con un pareggio dal campione in carica Luigi Malè (con un verdetto sonoramente disapprovato dal pubblico che lo aveva visto netto vincitore) si impadroniva del titolo, rimasto vacante, battendo di misura, dopo una selvaggia battaglia, il sorprendente Gianluigi Uboldi sul ring del Velodromo Vigorelli. Duilio in procinto di battersi per il titolo europeo trovava il tempo e l’orgoglio di difendere quello italiano. A Cagliari superava Emilio Marconi, che sarà suo strenuo avversario anche nella categoria superiore. In Sardegna, la continuità e scelta di tempo del sardo-triestino avevano la meglio di misura sulla tecnica classica del grossetano. Giungeva quattro mesi dopo il tempo di dare l’assalto alla corona di campione d’Europa. A Copenaghen nell’agosto del 1952 contro Jorgen Johansen, i giudici non considerarono il minimo vantaggio che Loi era riuscito ad ottenere sulle quindici riprese, anzi pronunciarono un verdetto di sconfitta, il primo della sua lunga carriera. L’appuntamento era solamente rimandato. Nel frattempo respingeva il campione di Olimpia Ernesto Formenti in un match che a Milano fece epoca. Qualcuno vedeva nel seregnese l’uomo che, con la sua maggior tecnica, avrebbe fermato il cammino dell’invincibile campione. Al Teatro Nazionale di Milano per due riprese il puntuale e perfetto sinistro, doppiato con perfetta scelta di tempo da parte di Formenti sembrava dare ragione a quella parte di pubblico che tifava per lui. Dal terzo round Duilio Loi scatenava una violenta e “cattiva” offensiva con azioni al corpo che riducevano a mal partito lo sfidante. L’incrinazione di una costola costringeva quindi l’uomo di Seregno all’abbandono. La rivincita, disputata poco dopo senza titolo in palio, ribadiva in modo più netto, la sua superiorità sul grande avversario. Chiuso il capitolo Formenti, rimaneva aperto quello con Marconi il quale giustamente ambiva ad un atro confronto. Il match si disputava a Grosseto e vedeva il confronto equilibrato tra le due differenti caratteristiche dei pugili con una leggera superiorità del campione in carica nelle riprese finali. L’arbitro e giudice unico Tinelli di Roma se la cavava con un salomonico verdetto di parità che sostanzialmente lasciavano le cose al punto giusto. Siamo nel 1954 e Milano diventa il polo principale del pugilato italiano grazie al suo campione. La conquista del titolo europeo dei pesi leggeri avvenuta nel febbraio di quell’anno a spese del danese Jorgen Johansen – verdetto che riscattava l’unica sconfitta riportata fino a quel momento – dava inizio ad una stagione esaltante che sarebbe durata parecchi anni. In un Palazzo dello Sport umido e freddo, settemila spettatori hanno assistito al trionfo di Duilio al termine di un combattimento altamente spettacolare. Johansen dimostrava di non essere un pugile finito ma con grande orgoglio sperava di riportare in Danimarca il simbolo del primato. Ben guidato da Aldo Spoldi, dopo due riprese in cui l’emozione lo attanagliava, il milanese d’adozione si produceva in un crescendo entusiasmante, senza momenti di pausa. I suoi corti ganci e montanti gli procuravano il vantaggio ancor prima dell’ultimo round dove l’ormai campione spodestato tentava il tutto per tutto. Duilio non si risparmiava, accettava gli ultimi scambi velenosi e finiva in trionfo. Conquistato l’europeo dei pesi leggeri non abbandonava quello nazionale, anzi metteva in palio entrambi contro uno degli avversari che più lo impegnarono anche nella categoria superiore, Bruno Visintin, un campione che ebbe la strada sbarrata da uno più grande di lui. Sempre a Milano, ormai tutti i maggiori incontri si disputavano nella capitale lombarda, l’esperienza e l’aggressività di Duilio Loi respingevano l’audace e combattivo spezzino. Di seguito era il francese Jaques Herbillon a sottostare al talento del campione, il quale per nulla imbarazzato dalla guardia falsa dello sfidante dominava il match disputato al Velodromo Vigorelli. Nel pieno della maturità agonistica volava in Australia (tre vittorie) prima di puntare alla Mecca del pugilato, l’America. A Miami superava di slancio Glenn Flanagan ma non si faceva lusingare dalle sirene d’oltre atlantico e preferiva il porto più sicuro della sua Milano. Al ritmo di un combattimento al mese, anche quelli senza titolo in palio erano contro avversari di classe, vedi Ray Famechon, Joe Lucy, Orlando Zulueta con il quale si confermava come il miglior peso leggero del mondo, vero re senza corona. La stracittadina con il generoso Giancarlo Garbelli che a Milano contava su un nutrito stuolo di tifosi, doveva esser un altro esaltante episodio della sua carriera. Contro “Garbellino” spremuto come un limone per rientrare nei limiti della categoria, dovette dar fondo a tutta la sua classe per domare uno sfidante commovente e battagliero come non mai. Battuto in linea tecnica Garbelli gli fu pari in ardore agonistico e gli scroscianti applausi finali accomunarono entrambi. Le grandi sfide si susseguivano a ritmo incessante. Era giunto il tempo di Seraphin Ferrer il più pericoloso picchiatore in circolazione nel Continente a quel tempo. E’ stato questo forse il più bello ed emozionante incontro di Duilio Loi al quale abbia assistito. Calmo e padrone di sé il campione in carica dava una tal dimostrazione di classe da far sembrare il francese nord-africano come uno scolaretto. Dopo una ripresa Duilio aveva già inquadrato l’avversario, molto attento e chiuso in una guardia strettissima. Ad ogni destro parato o mandato a vuoto dell’avversario partiva con scariche veloci e potenti che irridevano Ferrer. Solamente all’undicesimo round lo sfidante lo centrava con uno dei suoi proverbiali colpi ma il nostro grande campione dimostrava anche doti di integrità fisica stupefacenti. Il finale del match fu tutto un crescendo entusiasmante, sfidando il competitore proprio sul suo piano quello della battaglia ad oltranza in lunghi scambi nei quali aveva sempre la meglio. Dopo questo duro confronto abbandonava il titolo italiano. A ritmo incessante i combattimenti si susseguivano l’un l’altro. Contro lo scorretto spagnolo Josè Hernandez, il nostro, non al meglio per un incidente di macchina avvenuto tre giorni prima del match e ferito da una testata che gli squarciava il sopracciglio destro, ingaggiava una furiosa rissa con l’avversario che se non fosse stato sul ring casalingo gli sarebbe costata cara. Si rifaceva prontamente contro Fred Galiana, Maurice Auzel e i fratelli Felix e Sauveur Chiocca prima di ritrovarsi lo spagnolo Hernandez nel Santo Stefano del 1956. La vendetta si consumava come nelle previsioni. Duilio aveva calcolato tutto: per dieci monotone riprese aveva freddamente controllato la “ testa “ dell’avversario, puntuta e pericolosa. Nei cinque rounds finali partiva la sua offensiva fatta di pesanti destri che scuotevano Hernandez. Solo una condizione fisica ottimale permise allo spagnolo di sentire in piedi l’ultimo suono del gong. Ormai gli avversari validi scarseggiavano. Nel 1957 difendeva una sola volta il campionato continentale contro Felix Chiocca, il francese di origine corsa da lui già superato a Parigi un anno prima. Calava infine a Milano l’ombra di quello che fu campione del mondo dei leggeri Wallace “Bud” Smith che Loi superava facilmente. Dopo il pareggio con il friulano Mario Vecchiatto capiva che il suo tempo nella categoria era scaduto e per ragioni di peso abdicava e passava tra i welter. Malgrado non fosse la sua categoria naturale entra di diritto tra i grandi con la conquista del titolo europeo.
Il secondo gradino lo destino a Cleto Locatelli. Con Cleto Locatelli inizia il periodo d’oro dei pesi leggeri e di conseguenza il dominio in Europa che durerà con brevi interruzioni per più di trent’anni. I più grandi pugili italiani hanno dato a questa categoria la palma dell’eccellenza. Cleto è stato il primo e forse il migliore. Chi ha assistito alle sue prestazioni lo definisce il pugile più completo, tecnicamente fortissimo, coraggioso, testardo, giramondo che ha entusiasmato le folle. Uomo di poche parole rispondeva con i fatti sul ring. Nato a Bellinzona in Svizzera da genitori italiani si trasferisce a Milano dove lavora come aiuto pasticcere e inizia il pugilato all’A.P.I. del maestro Garzena. Sarà Parigi la città che lo affascinerà di più e che non abbandonerà fino alla sua scomparsa. Anche la sua carriera vivrà due distinte fasi: quella più esaltante tra i pesi leggeri, con il titolo europeo conquistato in Olanda, e la seconda quella del declino come peso welter e medio. A vent’anni passa al professionismo dopo un buon periodo dilettantistico senza particolari acuti. In Italia si impone subito ma viene respinto nei suoi primi assalti al titolo italiano con due verdetti per squalifica da Farabullini. Il titolo, rimasto vacante per problemi di peso da parte del detentore gli veniva conteso da Vincenzo Rocchi. Questi ancora troppo acerbo, era solamente al suo settimo match, oppose a Locatelli solo una buona difesa. Con il titolo nelle sue capaci mani inizia la campagna di Francia e a Parigi divenne un vero idolo. Milano lo rivide solamente per i suoi combattimenti contro Carlo Orlandi. Ed è appunto con questi che perse la corona di campione nazionale alla prima difesa. Orlandi sarà la sua bestia nera. I due alla fine si incontrarono sei volte con tre vittorie per il primo, due pareggi ed una vittoria per Locatelli. E’ stato sfortunato Cleto nell’incontrare un campione come Orlandi, sicuramente sottovalutato per la sua fresca carriera. A marcare la differenza contribuiva anche per la ferita riportata nel combattimento con Defer e riapertasi con il successivo confronto con Alì Ben Said, effettuato solo cinque giorni prima. Fu un handicap notevole per Locatelli in un confronto aspro e nel contempo bellissimo, il migliore mai visto a Milano. Allora i “campioni “ non si evitavano ma davano vita a prestazioni che esaltavano entrambi i protagonisti. Di un soffio la vittoria arrise allo sfidante. Tornato a Parigi Locatelli passava di vittoria in vittoria in attesa del nuovo match con Orlandi molto sentito per una questione di rivalità stracittadina. Al Palazzo dello Sport della capitale lombarda davanti a 5.000 spettatori i due fieri rivali ripeterono l’esaltante confronto disputato sette mesi prima malgrado Locatelli abbia dovuto rifare la pesatura, fallita in mattinata. Il giusto pareggio lasciava le cose come erano. Dopo questo match tutte le teste dei migliori atleti d’Europa cadevano ai suoi piedi e coronava l’esaltante stagione con il titolo europeo conquistato il 18 agosto 1932, sul ring piazzato nel mezzo del Velodromo di Rotterdam, davanti a 10.000 spettatori convinti di salutare la vittoria dl proprio beniamino Bep Van Klaveren. Non avevano fatto i conti con la feroce volontà del pugile italiano deciso a far suo il simbolo del primato continentale. Seppure ferito ad entrambe le arcate sopraciliari Locatelli impose un ritmo impossibile per tutto l’arco del combattimento. Pur essendo chiaramente in vantaggio sul bravo avversario Cleto non rallentava il frenetico ritmo al punto da incantare e ad indurre la folla tutta in piedi a salutarlo vincitore. Quattro mesi dopo la sfortuna l’aspettava sul ring del Palais des Sports di Bruxelles, dove il determinante aiuto di un giudice belga toglieva il titolo a Locatelli, con un verdetto di squalifica per colpo basso, colpo che nessuno vide. Dopo tre riprese condotte dal nostro con azioni incalzanti alle quali il belga rispondeva con affanno, sul finire del round Sybille si accasciava al tappeto. L’arbitro contava fino a dieci quindi si rivolgeva ai giudici per avere il parere sul colpo che aveva causato l’atterramento. Uno solo, quello di casa, vide il colpo irregolare che, viceversa, aveva colpito netto allo stomaco. Tra i sonori fischi dei 15.000 spettatori Cleto subiva un clamoroso furto. Ma non era tipo da demoralizzarsi, abituato a calcare i quadrati più ostici. Dopo un’altra lunga serie di vittorie tra le quali finalmente un successo sul tradizionale avversario Orlandi, all’Arena di Milano, Locatelli si ritrovava di fronte al campione che lo aveva detronizzato ingiustamente. Nella sontuosa cornice di Piazza di Siena, a Roma, quale sotto-clou al combattimento mondiale di Carnera contro Paulino Uzcudum. Sul ring capitolino François Sybille dimostrava di essere un campione vero. I due si temevano ed il combattimento viveva di questa incertezza. Nessuno di essi voleva concedere all’altro la possibilità di avvantaggiarsi ed il match scorreva con battaglia di diretti alla distanza. Un imprevedibile modesto calo di Locatelli permetteva al belga di trovarsi in leggero vantaggio alla fine del tredicesimo round. A questo punto Sybille peccava di presunzione ed attaccava con forza dando modo a Locatelli di piazzare i suoi potenti crochet d’incontro. Scosso a più riprese il campione in carica veniva superato di poco ma giustamente. Dopo aver ripreso il suo titolo continentale partiva per l’avventura americana ed il suo primo avversario fu nientemeno che Tony Canzoneri, l’oriundo italiano che aveva appena perso il titolo mondiale (lo avrebbe riconquistato in seguito). I due entusiasmarono il pubblico ed il verdetto di parità fu accolto con grandi applausi dal pubblico presente. Inspiegabilmente più tardi il verdetto venne cambiato con vittoria di Canzoneri. Ma la bella prova rimase. Questo primo scorcio d’avventura americana si concluse positivamente con le vittorie su Jake Kid Berg, Benny Bass e Frankie Klick, uomini di alta classifica e la rivincita con Tony Canzoneri, dal quale venne superato una seconda volta pur battendosi alla pari. Dopo un breve soggiorno a Parigi, Cleto ritornava negli States e in un anno e mezzo di soggiorno inanellava una lunga serie di successi. La sue vittorie su Lew Massey, Steve Halaiko, Izzy Jannazzo e Fritzie Zivic rivelavano la sua pericolosità per gli uomini di alta classifica al punto da non aver mai potuto usufruire di una chance al titolo mondiale. A togliere dall’imbarazzo chi muoveva i fili del potere vennero le sconfitte per ferita con Bobby Pacho e Billy Celebron, nonché quelle con Jimmy Leto e Ceferino Garcia, futuro campione del mondo dei pesi medi. Il peso di una durissima carriera disputata quasi interamente all’estero aveva cominciato ad aprire delle crepe nella formidabile corazza atletica del nostro campione il quale, tornato in Europa ormai definitivamente peso welter si barcamenava ad alto livello, spesso subendo ingiuste sconfitte. Tentava l’assalto alla corona europea nelle mani di Felix Wouters. L’incontro si disputava allo Stadio del Centenario di Bruxelles davanti ad una grande folla e Locatelli mantenne le promesse di un grande e vibrante combattimento cedendo di misura alla giovinezza del campione belga. Vittorie e sconfitte si alternavano, una semifinale al titolo italiano con Michele Palermo lo vide soccombente ma il bisogno lo costringeva a battersi ancora. I bombardamenti su Parigi gli avevano distrutto il locale Chez Cleto, rituale ritrovo degli sportivi parigini e le somme importanti accumulate in carriera svanirono. In miseria, ma orgoglioso come quando si batteva su tutti i quadrati del mondo, non accattava elemosine da nessuno. Il vice-presidente della FPI ing. Rota si recò personalmente in Francia per convincerlo a tornare a Milano dove gi avrebbero trovato una degna collocazione. Cleto Locatelli rifiutava fermamente e rimase nella sua stamberga sotto i ponti della Senna. Non poteva staccarsi da Parigi, città che aveva molto amato e tanto lo aveva prediletto, Moriva a Creteil a soli 55 anni .
La terza postazione la dedico ad Aldo Spoldi. Per illustrare la figura e le gesta di Aldo Spoldi non basterebbe un libro intero. Campione carismatico, dotato di fisico, combattente generoso e tecnicamente valido, possedeva la folgore nei pugni. Avere la “spoldite” in gergo significava avere il pugno fulminante. In America lo soprannominarono “Kid Dinamite”. Purtroppo aveva il difetto che affligge tutti i pugili con il pugno pesante: dopo un po’ le ossa delle mani non resistevano all’urto della battaglia e per buona parte della carriera dovette affrontare i migliori pugili del momento con questa tribolazione. Il lodigiano, formatosi pugilisticamente alla Tonoli di Milano, a diciotto anni abbracciava la professione ed il suo carattere di giramondo avventuriero lo portarono subito all’estero, forte della sua incoscienza e fiducia nel suo pugno. Non misurava avversari e a Zurigo, Londra, Parigi, Algeri e Vienna, impararono a conoscerlo. A Milano era un idolo per le forti emozioni che sapeva suscitare. A Johannesburg distrusse letteralmente il campione olimpionico Laurie Stevens. Non inganni il risultato favorevole al sudafricano. Dal Sudafrica agli Stati Uniti d’America il passo fu obbligato. Negli States si trovò a suo agio e le vittorie importanti si susseguirono una dopo l‘altra. Freddie “Red” Cochrane, Eddier Zivic, Lou Camps, Norman Snow, Jake Kid Berg, già campione mondiale del welter leggeri, finivano fuori combattimento in due riprese, così come Pancho Villa, Al Roth, Eddie Brink e Richie Fontaine finirono sonoramente battuti ai punti. Per fermarlo gli opposero nientemeno che Henry Armstrong, il fenomenale triplice campione del mondo. Fu una sconfitta ai punti ingigantita dal fatto di essere stato l’unico dei ventisette avversari di quell’anno a non finire KO. Qui occorre aprire una parentesi: Spoldi in carriera ha disputato 140 combattimenti ,il suo amico Turiello che in America conduceva vita parallela, 180. Ebbene, una volta la prima cosa che un maestro faceva con un allievo era insegnargli la difesa. Senza di essa non avrebbero potuto uscire indenni dopo una durissima carriera sui ring di tutto il mondo. Oggi non è più così, si insegna a colpire e basta. La crisi del pugilato passa attraverso una penuria di veri maestri. Tornava in Italia Spoldi passando ancora per il Sud Africa per incassare la solita sconfitta casalinga contro l’ex-campione del mondo pesi piuma Freddie Miller. Riprendeva a vincere e quando nell’ottobre del 1938 Gustave Humery abbandonava il titolo europeo Aldo si recava a Copenaghen a sfidare Carl Andersen. Abituato a battersi ovunque non gli dava fastidio combattere fuori casa e superando anche l’inconveniente di una nuova frattura alla mano sinistra, con il solo destro valido batteva nettamente l’avversario che finiva molto provato, tacitando la folla danese accorsa copiosa al Forum della città. Il titolo europeo tornava ancora una volta in Italia. Ma il richiamo dell’America era troppo forte. Partiva di nuovo per tornare in tempo a difendere il suo titolo a Milano. Al Teatro del Popolo, tra le mura del Castello, trentamila milanesi si son dati convegno per ammirare il loro campione. Non rimasero delusi. Il belga Simon De Winter accettava una tattica suicida conducendo la battaglia a viso aperto. Al secondo round sembrava tutto finito, due terribili destri di Spoldi riducevano a mal partito il biondino belga, il quale facendo leva sulla giovinezza ed integrità fisica si riprendeva e contrattaccava. De Winter resisteva fino alla nona ripresa quando, squassato dai potenti colpi del campione, veniva tolto di gara dal getto della spugna. Spoldi si fermava a Milano ancora per un anno vincendo tutti i matches disputati, quindi salutava gli amici e ripartiva per l’America. In quest’ultimo scorcio di attività disputava una quarantina di combattimenti con buoni risultati, salvo nell’ultima fase. Rimase in America nonostante le sanzioni americane contro gli italiani che erano entrati in guerra a fianco dei tedeschi; gli furono sequestrati tutti i suoi averi e per vivere dovette così accettare qualsiasi avversario spesso combattendo con entrambe le mani fuori uso. Passato il brutto momento seppe rifarsi una vita agiata. Ritornava in Italia per un certo periodo quando negli anni cinquanta costituiva una sua scuderia pugilistica con l’intento di portare Duilio Loi in America per il titolo mondiale. Il progetto non gli riusciva e ritornava in California dove possedeva un ristorante. Ma l’Italia era nel suo cuore e le sue ceneri riposano ora nel suo paese natale, Castiglione d’Adda.
Il quarto posto spetta a Carlo Orlandi. L’uomo del miracolo, ovvero l’uomo che visse due volte. La vicenda umana e sportiva del “Moro di Porta Romana” ha veramente dell’incredibile. In un cortile di Via Vitruvio stava piazzato un ring dove si allenavano diversi pugili professionisti ed un ragazzino dalla carnagione un po’ scura e che la natura aveva menomato nella parola, mimava ed imparava immediatamente tutti i colpi che gli atleti si portavano. Orlandi aveva la boxe nel sangue e la sua carriera è stata strepitosa per qualità e quantità di titoli conquistati. A soli 18 anni si laureava campione d’Italia dilettanti dei pesi leggeri e nello stesso anno suggellava il suo periodo dilettantistico con l’alloro Olimpico ad Amsterdam. Campione dalla boxe istintiva dopo soli nove match strappava il titolo italiano dei leggeri al grande Cleto Locatelli e lo difendeva contro Saverio Turiello e ancora Locatelli in una serie di combattimenti stracittadini che esaltavano la scuola milanese di pugilato. Orlandi per la sua menomazione era prettamente un pugile casalingo; lontano dalla sua Milano si confondeva ed un disgraziata tournée in Argentina gli fece perdere il titolo a tavolino. Ritornava in auge e riconquistava la corona nazionale a spese di Saverio Turiello, quindi la abbandonava per dedicarsi a quella europea che otteneva a spese del fuoriclasse belga François Sibille. Dopo la vittoriosa difesa contro Richard Stegemann ed ulteriori successi, venne opposto al potente cubano Pedro Montanez che precedentemente aveva fatto pari con Turiello. Questi, conoscendo l’istinto dell’amico-rivale, al suo angolo inutilmente si sgolava nel raccomandargli prudenza contro un uomo dal pugno pesantissimo ed omicida. Niente da fare; Orlandi galvanizzato dalla lotta stava imponendo la sua classe al pericoloso rivale vincendo tutte le riprese. Ma bastò un attimo di disattenzione e la folgore si abbatteva su di lui. Ricoverato d’urgenza sembrava perso per la boxe. Dopo oltre un anno d’inattività il suo fisico aveva recuperato l’efficienza e Carletto si ripresentava come peso welter sulle scene nazionali per una seconda parte di carriera. Dal 1937 al 1944 disputava una settantina di combattimenti come medio leggero con solo dieci sconfitte ed il titolo italiano, conquistato a spese di Michele Palermo, suggellava la sua rinascita. Per la verità le cronache del tempo ci dicono che i giudici del match disputato a Roma siano stati un po’ larghi di manica nei suoi confronti (pare che “Michelone“ avesse meritato la vittoria), suggestionati dal mito del campione che ritorna miracolosamente. Solo nella successiva difesa disputata a Milano, Orlandi legittimava il possesso del titolo in sue mani rispolverando l’antico estro istintivo con in più un piglio combattivo che da tempo aveva perso. E’ stato il suo ultimo capolavoro di una carriera senza eguali, prima che le folgori dell’incombente Egisto Peyre cadessero su di lui. Il suo declino fu decoroso e vittorioso senza quel trascinarsi patetico a cui molti pugili sono stati costretti. Dopo la morte del fratello con il quale conviveva, senza famiglia, moriva disperato e solo nell’Istituto geriatrico P. Redaelli della sua città.
La quinta posizione la riservo ad Enrico Venturi. Qualcuno lo paragonò al grande Cleto Locatelli per la continuità nel mitragliare gli avversari con colpi in serie. Una carriera la sua iniziata da peso gallo a quindici anni sulle orme del fratello Vittorio, altro grande del pugilato italiano. I primi anni gli servirono per acquisire quell’esperienza che gli sarebbe stata di grande aiuto più avanti. Ciò non gli impedì di incontrare e battere molti campioni in Italia e all’estero; Argentina e Nord America ammirarono la sua classe cristallina. Il tradizionale avversario nel nostro paese fu Saverio Turiello con il quale si batté sei volte riportando tre vittorie, due sconfitte ed un pari. A Milano nel tradizionale Santo Stefano pugilistico fu respinto proprio da questi nel suo primo tentativo di conquistare il campionato italiano, ma fu solo al suo cinquantatreesimo match che finalmente riusciva nell’intento. Al Teatro Jovinelli di Roma i due grandi rivali si produssero in un bellissimo combattimento. Venturi con grande spirito agonistico ed intelligenza e Turiello che riconfermava le sue straordinarie doti difensive. I due atleti, preparatissimi, al decimo round erano ancorati sul pareggio; le ultime cinque riprese furono di straordinaria bellezza con i due pugili che si avvantaggiavano, ora l’uno ora l’altro, senza che alla fine uno dei due prevalesse . Sarebbe stato un pari ma il fattore campo fece pendere la bilancia verso il pugile di casa. Quattro mesi dopo a Campobasso “Enrichetto” respingeva a fatica Otello Abbruciati solo con un infuocato finale. Le successive vittorie su Robert Tassin, Mauric Arnoult e Henry Ferret lo qualificarono a contendere a quest’ultimo il titolo europeo lasciato vacante da Carlo Orlandi. Al teatro Augusteo di Roma, davanti ai suoi tifosi, Venturi abbandonava il suo spregiudicato modo di combattere e con un comportamento giudizioso ed intelligente imponeva nettamente la sua classe al campione di Francia. Il titolo europeo riritornava in Italia ed il romano diventava il terzo italiano ad averlo conquistato. Era venticinquennne ed il suo spirito d’avventura lo portò di nuovo nel Nord America dove rimase poco più di tre anni. Decadde dal titolo europeo prima e nel 1937 anche da quello italiano. Fu un esaltante periodo il suo, nel quale maturò tecnicamente e nel fisico. Nel 1936 con le vittorie su Al Roth, Lew Feldmann, Freddy Cochran, Lew Massey, Frankie Klick, Bushy Graham ed un pareggio con il campione del mondo Lou Ambers, la prestigiosa rivista american The Ring lo collocava al quarto posto delle classifiche mondiali. Successivamente solo grandi pugili come Pedro Montanez, Dave Day ed Henry Armstrong riuscirono a batterlo. Tornato in Italia disputava il suo ultimo combattimento con Gino Giacomelli prima di dedicarsi al giornalismo dopo aver conseguito la laurea in lettere.
Lo scranno numero sei va a Giovanni Parisi. Pugile di difficile collocazione nell’olimpo dei pesi leggeri, sicuramente uno tra i più grandi, ma non paragonabile a quelli che lo hanno preceduto e che hanno lasciato un segno intangibile nella storia della categoria. La sua carriera si può dividere in quattro fasi distinte: quella dilettantistica, quella come peso leggero con il titolo italiano e quello mondiale della WBO, il momento con il mondiale dei superleggeri della stessa sigla e il periodo degli ultimi anni. Le scarse apparizioni con le quali chiuse la carriera sul ring sembrano dettate più dalla voglia di sentirsi ancora partecipe in un mondo che ha segnato parte della sua vita e dalla quale gli rimane difficile staccarsi. La vicenda personale di Giovanni Parisi sarebbe da portare ad esempio a tanti giovani . La sua è stata un’infanzia segnata dalle privazioni nella natia Calabria fino al riscatto a Voghera dove la madre Carmela aveva portato i suoi figli. Questa figura femminile per la quale Giovanni aveva una profonda venerazione, ha catalizzato in massima parte il primo periodo, quello dilettantistico, che lo ha condotto all’oro Olimpico. Entrato in palestra giovanissimo, i suoi primi passi furono contrassegnati da un forte emotività che gli prendeva lo stomaco e lo paralizzava. Il suo maestro Livio Lucarno ebbe una brillante intuizione che si rilevò un toccasana: dargli da mangiare un paio di crackers prima del combattimento, cosa che annullava l’inconveniente. Da quel momento le vittorie cominciarono a fioccare. Plasmato fin da giovane da tante sfortune, scontroso, introverso ed un poco permaloso ma in possesso di tanta classe, voleva essere lui stesso in prima persona l’artefice dei suoi successi. Campione d’Italia nei pesi leggeri a Roseto degli Abruzzi nel 1985 e nei piuma l’anno dopo a Messina, coglieva la più esaltante delle sue vittorie alle Olimpiadi di Seul nel 1988. Per quella preziosa circostanza Parisi, ormai stabilizzatosi come peso leggero, venne costretto a scendere di categoria per lasciare il suo posto ad un compagno. Una dieta ferrea lo aveva prosciugato al punto che avrebbe potuto portalo ad un indebolimento pericoloso, ma non aveva intaccato la feroce volontà di dimostrare a tutti il suo valore. Ad ingigantire questa voglia fu anche la scomparsa della genitrice alla quale volle dedicare il suo trionfo. Giovanni Parisi è stato il terzo dei pugili che compaiono nella storia della categoria ad aver vinto l’oro olimpico; prima di lui Carlo Orlandi e Vittorio Tamagnini. Dopo aver messo in fila uno dopo l’altro il cinese di Taiwan Lu Chin, il russo Kazarian, l’israeliano Shmuel, il marocchino Achik, sconfisse Daniel Dumitrescu della Romania nella finale. Ho ancora negli occhi il montante sinistro al corpo seguito dal gancio destro con il quale lo abbatteva al tappeto. Il traguardo olimpico per lui ha racchiuso significati particolari a livello atletico ed umano al tempo stesso. La dedica della medaglia d’oro alla madre da poco scomparsa e per la quale ha voluto vincere, dimostra una grande personalità di atleta e sensibilità di uomo. Subito dopo abbracciava il professionismo e la facilità con cui stendeva al tappeto gli avversari, i suoi colpi saettanti, sia di destro che di sinistro, gli procurarono il nomignolo di “Flash”. Parisi aveva inventiva e i suoi repentini cambi di guardia sconcertavano anche gli avversari più tosti, al punto da far passare in secondo piano una micro frattura al secondo metacarpo della mano destra, occorsa durante gli ultimi combattimenti dilettantistici. Operato a Lione al suo rientro sul quadrato volle, di testa sua, misurarsi con un campione come il portoricano Antonio Rivera che gli procurava uno dei pochi dispiaceri della carriera. Capito l’errore, riprese con determinazione ed il primo traguardo fu la conquista del titolo italiano. Stefano Cassi, resistette solo due rounds; soverchiato dalla classe del calabro-vogherese veniva folgorato dal gancio destro di questi e gli lasciava la corona di campione d’Italia. Quello del titolo italiano fu uno dei traguardi prioritari di Parisi al punto che lo volle mantenere per quattro anni, malgrado la mancanza di sfidanti, senza mai volerlo abbandonare, pronto ad affrontare chiunque glielo volesse togliere. Un titolo lo si perde sul ring, non lo si abbandona, fu il suo credo. Secondo il mio parere un errore fu quello di non puntare al titolo europeo per privilegiare il mondiale WBO la quarta sigla in ordine d’importanza tra quelle che monopolizzano l’attività internazionale. Dopo aver conquistato questa nuova corona contro il bravo ma non trascendentale Javier Altamirano, proprio a Voghera, la difendeva a Roma contro Michael Ayers una prima volta. Subito dopo si prendeva la rivincita contro l’unico avversario che lo aveva battuto in precedenza Antonio Rivera. A questo punto termina il capitolo di Giovanni peso leggero. Sale di categoria, cede alle lusinghe del promoter americano Don King e vola in America in cerca di un titolo più prestigioso. Disputa solamente tre combattimenti e ciò non lo soddisfa malgrado avesse battuto Freddy Pendleton, a quel tempo ancora campione mondiale pesi leggeri, versione IBF. Tornava in Italia dopo aver rotto i ponti con l’impresario americano, ma questi gli offriva la possibilità di incontrare titolo in palio il fortissimo Julio Cesar Chavez per la corona mondiale superleggeri WBC. Nell’aprile del 1995 a Las Vegas il fuoriclasse messicano, imbattuto da 95 combattimenti, la maggior parte vinti prima del limite, dovette accontentarsi di una vittoria ai punti dopo una bella prestazione del nostro Giovanni. Messa da parte l’America, il pugile vogherese veniva ripreso in considerazione dal WBO e a Milano toglieva il titolo al portoricano Sammy Fuentes. Ben cinque difese lo videro protagonista. Dapprima il talentuoso messicano Carlos “ Bolillo” Gonzales veniva respinto con un pareggio, quindi era la volta dello spagnolo Sergio Rey Revilla ad essere battuto in quattro riprese. Uguale sorte la subiva l’americano Harold Miller, sempre a Milano, mentre a Vibo Valentia, in Calabria, sua terra d’origine, fermava all’ottavo round l’assalto dell’inglese Nigel Wenton. A fine anno era il madrileno Josè Manuel Berdonce-Resino a subire la superiorità dell’italiano. Nel Maggio del 1999 a Pesaro l’unico che vantava un pareggio con lui riusciva a superarlo e gli toglieva il titolo mondiale. La sua attività diventava ridotta al minimo e due anni dopo, a dimostrazione che le sue motivazioni si erano affievolite, veniva respinto dal portoricano Daniel Santos per il campionato WBO dei welter. Dal 2003 al 2006 disputava solo tre combattimenti e l’8 ottobre a Milano si batteva per la prima volta per un titolo europeo, affrontando a quasi quarant’anni, in una disperata prova d’orgoglio, il welter francese Frederic Klose con il quale chiudeva una grande carriera.
Al settimo posto posiziono Roberto Proietti. Il posto di Roberto Proietti è quello tra i primissimi, i più grandi della categoria dei pesi leggeri anche oggi a quasi sessant’anni di distanza dal suo tempo. Il romano ha lasciato un segno indelebile nel pugilato italiano personificando quanto di meglio in fatto di intelligenza, tecnica pugilistica, velocità d’esecuzione ,insomma la ”classe” per eccellenza, quella con la lettera maiuscola. Campione d’Italia dilettanti nei 1941 a Terni, vestiva la maglia azzurra per nove volte riportando una sola sconfitta. A vent’anni, erano tempi di guerra, passava al professionismo. Gli bastarono due decine di combattimenti, tutti vinti sui migliori pesi leggeri d’Italia, per conquistare il primo titolo di una luminosa carriera. A farne le spese fu il concittadino Ascenzo Botta nell’unico loro combattimento. Questi era anche campione europeo ma in palio quella volta c’era solo quello italiano. Il pubblico convenuto allo Stadio nazionale, era naturalmente diviso nel sostenere ognuno il proprio beniamino, avvinto dalla bellezza e dall’emotività del match. Alla fine trionfava la superiore scherma e la genialità di Roberto sull’esplosiva potenza di Ascenzo. Dopo un paio di combattimenti in Spagna, Proietti si recava in Olanda dove sconfiggeva l’uomo di casa Jan Nicolaas, in una semifinale europea che avrebbe trovato il suo sfogo ideale solo cinque anni dopo. Non erano anni belli e Proietti forse risentiva dell’aleatorietà di quei momenti quando a Lucca, sul ring del Teatro Moderno, incontrava Bruno Bisterzo che tentava di rientrare in possesso del titolo che fu suo. Il romano, freddo e distaccato, lasciava l’iniziativa al rivale che, deciso e battagliero, macinando azioni su azioni, si portava avanti nel punteggio. Si aspettava la riscossa del campione ma questa veniva vanificata dalla feroce volontà dello sfidante che usciva alla grande nelle ultime riprese e meritatamente ritornava in possesso del titolo italiano. La prima parte della carriera di Roberto Proietti finisce in questo modo. Dopo un anno di inattività Roberto Proietti riprende il cammino interrotto partendo da dove era rimasto. Il primo passo fu quello di prendersi la rivincita su Bruno Bisterzo. Il match programmato all’Apollo d’oro di Roma purtroppo ha avuto una conclusione amara per entrambi. Per lo sfidante avendolo conquistato in quel modo, per il campione per averlo perso a causa di una frattura alla mano destra. Per cinque riprese si era assistito ad un combattimento abulico da parte di Proietti, il quale lasciava ogni iniziativa al suo competitore. Alla sesta ripresa, che poi sarebbe stata l’ultima combattuta, prima rimproverato quindi spronato dal fratello Luigi, suo procuratore, Roberto si scatenava in una girandola di colpi sfoderati come nei tempi migliori. Il pubblico impazzito pregustava un grande prosieguo del combattimento ma improvvisamente Bisterzo alzava il braccio in segno di resa. Un combattente del suo calibro non si sarebbe mai arreso per poco, infatti si era fratturato la mano sinistra. L’avventura a livello nazionale del grande pugile romano finiva in questo modo e Proietti si dedicava finalmente a quel titolo europeo che meritava da tempo. Le vittorie a Parigi su Andrè Famechon e su Pierre Montané, nonché quella ottenuta a Londra su Tommy Barnham, lo proponevano come sfidante ufficiale del campione in carica Kid Dussart. Diecimila persone affollavano il Palais des Sport di Bruxelles. All’inizio il match viaggiava sul filo dell’equilibrio quando improvvisamente la folgore nascosta nei guantoni del belga esplodeva sulla mascella del campione italiano. Il conteggio, inevitabile, gli permetteva di riprendersi ma occorrevano alcune riprese prima che Proietti ritrovasse tutta la sua gagliardia. Nel frattempo il vantaggio di Dussart si era fatto sensibile alla fine dell’undicesima ripresa quando la classe del campione italiano si evidenziava con una serie di colpi che sconcertavano il belga. Questi aggredito, malmenato da un pesante lavoro al corpo da parte dello scatenato italiano ed inseguito per ogni angolo del ring, veniva travolto e, ad un minuto dalla fine della tredicesima ripresa, alzava il braccio in segno di resa. Il trionfo di Roberto Proietti veniva cavallerescamente applaudito dallo sportivo pubblico belga, ammirato dalla grande classe del nuovo campione europeo. Due mesi dopo lo vollero ancora in Belgio. A Tournai lo aspettava l’idolo locale Joseph Preys. Troppa era la differenza di tecnica pugilistica tra i due avversari per pensare ad una sconfitta. Il romano in splendide condizioni di forma si portava subito in vantaggio nelle prime sei riprese, controllava il ritorno dell’avversario e nelle ultime cinque s’involava verso una chiara vittoria. Nel pieno della maturità e convinto dei suoi grandi mezzi pensava fosse giunto il momento di provare i quadrati americani. Ma il suo stile non si adattava al modo di combattere dei fighters d’oltre oceano. Veniva opposto a Johnny Williams, un peso welter appena battuto da Livio Minelli. Il nero americano non era un campione, ma pugile rotto ad ogni astuzia e lo superava ai punti. Lo scoramento per l’occasione persa di avanzare a livello mondiale scuoteva le sue convinzioni e chiamato a Londra in difesa del titolo europeo veniva battuto dal giovane Billy Thompson, un minatore dello Yorkshire. Questi nel secondo round, con violenti colpi al corpo aveva causato un’incrinazione ad una costola di Proietti che dovette combattere per quindici riprese con l’avambraccio sinistro a protezione della parte lesa. Passava un anno e mezzo inattivo e dopo la lenta ripresa, l’organizzatore belga Badoux gli veniva incontro sicuro di una rivincita sonante del suo protetto Kid Dussart, che nel frattempo aveva conquistato di nuovo il titolo europeo battendo chiaramente il vincitore dell’italiano. La sorpresa per i belgi fu grande, ma non per i cinquemila italiani accorsi a Bruxelles dalle zone minerarie. Proietti disputava un match impeccabile. Meno tecnico, meno estemporaneo ma terribilmente più positivo e preciso al punto che alla settima ripresa un suo perfetto diretto destro atterrava il forte avversario. Almeno tre punti di vantaggio alla fine sancivano la sua superiorità. Il capolavoro Roberto Proietti lo effettuava meno di due mesi dopo a Londra. Sul ring dell’Empress Hall lo aspettava Billy Thompson che lo aveva battuto due anni prima. Ma anche il romano aspettava con determinazione il riscatto di una serata negativa. Molti tifosi lo avevano seguito dall’Italia, alla fine commossi ed orgogliosi del loro campione che aveva surclassato in ogni tema l’avversario. Lo sportivissimo pubblico inglese salutava con scroscianti applausi la sua grande dimostrazione di pugilato classico e potente. In quella che sarebbe stata l’ultima difesa del titolo europeo, a Milano, davanti a quindicimila spettatori che gremivano il velodromo Vigorelli, Roberto Proietti ritrovava l’antico competitore Joseph Preys. Il lattiginoso belga non era avversario capace di impensierire il campione, ma un duro del ring, ostico e pericoloso. Infatti, dominato fu costretto a subire anche un atterramento al quarto round, raggiunto da un secco destro alla mascella. Il belga si riprendeva tanto da finire all’attacco anche per un rallentamento del romano che soffriva di una dolorosa vescica al piede. La chiara vittoria e la successiva felice performance sul ring di Copenaghen su Jorgen Johansen non lasciavano prevedere il suo ritiro dalle competizioni. Dimostrando quella intelligenza che esprimeva sul quadrato, Roberto Proietti aveva la forza di ritirarsi imbattuto campione.
Per l’ottava collocazione individuo Stefano Zoff. Nasce pugilisticamente alla A.P. Fincantieri di Monfacone diretta dal maestro Elio Tricarico. Il feeling con il dilettantismo non fu esaltante ed il suo miglior risultato fu il secondo posto ai campionati italiani di Lucca del 1988 nella categoria dei piuma battuto in finale dal pugliese Luigi Quitadamo. L’anno dopo passava al professionismo all’età di ventitré anni e nessuno avrebbe mai pensato di ritrovarselo dopo quasi cinque lustri ancora validamente sulla breccia, dopo essere stato protagonista in tre categorie diverse. Un’infanzia difficile, la mamma morta quando era giovane, abbandonava la scuola per il lavoro d’imbianchino che non ha mai lasciato durante i primi anni di boxe. Lui stesso si definiva imbianchino di professione e pugile per caso. Atleta estemporaneo, loquace e simpatico, dotato di buona tecnica e di vivida intelligenza. Ha qualità di fondo insospettabili in un fisico longilineo all’apparenza fragile, ed il suo pugno, non folgorante, con il passare delle riprese diventava determinante. A queste sue qualità si possono aggiungere lo spirito di sacrificio e la voglia di arrivare. Giovane peso piuma, dopo quattordici combattimenti perdeva la prima opportunità al titolo italiano contro Gianni Di Napoli a Castelcivita. Non falliva la seconda occasione proprio contro lo stesso avversario a Grosseto nel maggio del 1993, palesando una grande condizione atletica che gli ha permesso di tenere ritmi altissimi. Facendo tesoro degli insegnamenti tratti dal loro primo combattimento il monfalconese ha usato il suo sinistro come una tagliente lama, senza dare scampo all’avversario fino a sovvertire un pronostico che gli era sfavorevole. Lo difendeva una volta contro Athos Menegola a Follonica, Ad un inizio equilibrato faceva seguito un crescendo irresistibile contro un avversario in difficoltà per una ferita all’arcata sopracciliare sinistra. A 28 anni Stefano prese coscienza della sua forza e come campione d’Italia si recava a Charleroi in Francia per contendere l’europeo dei pesi piuma a Stephane Haccoun che aveva tolto il titolo a Maurizio Stecca. Il francese , netto favorito, non aveva fatto i conti con l’esasperante vivacità e carica aggressiva del nostro che alla nona ripresa lo costringeva all’abbandono dopo averlo martirizzato con il pungente jab sinistro, seguito da destri maligni in diretto ed in gancio. Dopo la conquista del titolo si evidenziava uno degli aspetti negativi del pugile: fortissimo quando c’é da conquistare, senza mordente e determinazione quando c’è da difendere. E’ questo il “trand” che caratterizzerà tutto il suo cammino pugilistico. Sei mesi dopo, perdeva il titolo a Fontenay Sous Bois contro il non irresistibile franco-algerino Mehdy Labdouni. A sua scusante una tattica sbagliata ed un’influenza che lo aveva limitato negli allenamenti. Stefano che aveva abbandonato la corona italiana dei piuma prima di combattere per l’europeo, la riconquistava battendo prima del limite Fabrizio Cappai, il nuovo campione in carica, a Quartu S.Elena nell’aprile del 1994. Fu un match breve ma intenso. Scambi violenti si sono susseguiti fino alla quarta ripresa quando un preciso montante seguito dal gancio destro di Zoff atterrava il campione, incapace di continuare L’anno successivo tentava di riappropriarsi del titolo continentale dei piuma; a Sanremo, sul ring del Casinò, ma l’inglese Billy Hardy, migliore alla corta distanza, imponeva la sua tattica respingendo il suo tentativo. Dopo un fallito assalto all’intercontinentale IBF a Cagliari contro il dominicano Laureano Ramirez Padilla centrava l’obbiettivo al secondo tentativo, battendo sul ring di casa sua a Monfalcone lo stesso pugile caraibico. Una brutta sconfitta dall’ucraino Vladimir Matkivski chiudeva la sua stagione da peso piuma. Passava di categoria e subito centrava il titolo italiano superpiuma. Prisco Perugino faceva le spese della voglia di riscatto del pugile di Monfalcone il quale superava anche Massimo Conte per ferita ed ancora Perugino, questa volta prima del limite. Un anno solo durava il suo periodo tra i superpiuma ed l’ingresso tra i pesi leggeri lo fece in modo esaltante. Tutti i grandi della categoria non hanno mai potuto usufruire di una possibilità di conquista iridata. Con il moltiplicarsi delle sigle mondiali divenne più facile avere possibilità in questo senso. Tra i leggeri il primo a riuscire nell’impresa fu Giovanni Parisi per la WBO mentre Stefano Zoff conquistava il titolo WBA in Francia a Le Cannet..Novello “Lazzaro”, Stefano risorgeva da dominatore ubriacando con il suo sinistro, insistente e preciso, un incredulo Julien Lorcy che non si aspettava una simile lezione per una difesa volontaria. Tre mesi dopo doveva incontrare lo sfidante ufficiale ,il fortissimo venezuelano Gilberto Serrano. Questi, a Las Vegas, lo batteva al decimo round per ferita. Zoff con la sindrome della prima difesa e con l’occhio destro completamente chiuso, perdeva il titolo. A trentatre anni rientrava apparentemente nei ranghi ma pazientemente aspettava una nuova opportunità che si presentava a Trieste il 26 maggio del 2001. Julien Lorcy, il suo antico avversario aveva abbandonato il titolo europeo dei pesi leggeri ed il “Pirata”, questo il suo soprannome dovuto al suo nuovo look, si faceva trovare in prima fila con il francese Djamel Lifa. Per il transalpino è stato un calvario; girandole di pugni che con il passare delle riprese diventavano pesantissimi lo coglievano in quantità notevole fino al decimo round, l’ultimo per un KO dovuto allo sfinimento per la sequela di colpi. Questa nuova impresa gli serviva per monetizzare il titolo; prima Dariusz Snarski a Monfalcone quindi Bruno Wartelle a Trieste venivano spazzati via in poche riprese. Abbandonava l’europeo per incontrare Artur Grigorian in Germania nel settembre del 2002. L’uzbeko ,molto protetto sui rings tedeschi ha potuto mantenere la corona mondiale WBO di strettissima misura al termine di un match a due facce. La prima a favore del campione in carica, la seconda nettamente per il nostro che finiva in crescendo come suo solito. “Ho vinto io” diceva polemicamente il Pirata scendendo dal ring. Stefano Zoff, che come il buon vino migliora con il tempo che passa, era sfidante al titolo europeo detenuto da Jason Cook e non esitava a recarsi nel Galles a confrontarsi con il locale campione. Perdeva il combattimento ma manteneva la qualifica di primo sfidante in quanto Cook non era riuscito a rientrare nei limiti di peso della categoria. Per uno come lui, perdere due volte di fila era una cosa insopportabile. Con questa motivazione saliva sul ring del Pala Chiarbola di Trieste, solo mezz’ora di macchina dalla sua Monfalcone. Il vacante titolo europeo era in palio contro David Burke, un mancino campione del mondo WBU, la cui sigla sarà stata screditata ma l’inglese era un buon pugile che lo seppe impegnare al massimo. Solo il grande cuore del bisiaco fece la differenza. A 37 anni e mezzo non c’è molto tempo da perdere. Zoff accettava la sfida di Christophe de Busillet che, con molta presunzione, cercava di togliergli il titolo a Levallois. Incattivito da un tifo non proprio gentile nei suoi confronti, dopo alcune riprese di rodaggio infittiva i suoi colpi che ben presto riducevano a mal partito il francese, fermato dall’arbitro al settimo round. Passano quattro mesi ed è il magiaro Laszlo Komjathy a sottostare all’inesauribile voglia di vincere del campione europeo. Dopo le ultime due facili difese si presentava al suo cospetto un avversario da molti indicato come l’uomo capace di fermare la sua corsa. Era Michele Delli Paoli il predestinato. Il combattimento disputato a Verbania viceversa riconfermava Zoff più pugile rispetto all’avversario, che non aveva saputo emendarsi da troppe scorie dilettantistiche. Il polemico match finiva con un vero trionfo del riconfermato campione. A Milano nel marzo del 2005 combatte per l’ultima volta per il titolo continentale (almeno così si pensava in quel momento) e respinge senza strafare il danese Martin Kristjansen di undici anni più giovane. Ottenuta la tanto sospirata chance mondiale abbandona la corona di campione d’Europa. Il match iridato si disputava al Palalido di Milano e d’improvviso Stefano dimostrava la sua vera età. A quasi quarant’anni di colpo smarriva le sue principali caratteristiche. Atterrato al settimo round, si rialzava lucido ma incapace di continuare. Levander Johnson era il nuovo campione del mondo IBF. Non convinto che il suo tempo fosse finito, il monfalconese non si ritira ma essendo ancora vacante l’europeo che lui stesso aveva abbandonato se lo giocava con lo spagnolo Juan Carlos Diaz Melero a Leganes in Spagna. Alla Cubierta, gremita di tifosi spagnoli, Zoff di fatto confermava il risultato di Milano e la chiusura di una ineguagliabile carriera. A questo punto termina il percorso “italiano“ di Stefano Zoff perché a quarant’anni le regole della FPI gli vietano il tesseramento. Sembrava finita la storia di questo pugile dopo 16 anni di battaglie con due titoli italiani, piuma e superpiuma, un titolo intercontinentale IBF, un titolo mondiale pesi leggeri WBA e per due volte campione d’Europa dei pesi leggeri per complessivi 27 combattimenti titolati. Ma l’imprevedibile “bisiaco” si tessera per la Federazione Croata tornando sul ring dopo un anno, a Slagelse il 15 dicembre 2006 e costringe al pari l’ex avversario Martin Kristjansen in un incontro valevole per il campionato dell’Unione Europea. Nell’ottobre del 2007, a Minsk in Bielorussia, combatte ancora una volta per il titolo continentale dei leggeri perdendo ai punti con il campione in carica Yuri Romanov. Anche questa volta l’impresa gli sfugge per poco. Non sono bastati il cuore, la classe e l’orgoglio del vecchio campione, il quale, ha saputo tener testa ad un avversario di sedici anni più giovane e che combatteva in casa con il favore delle giurie.
Sul nono scranno piazzo Antonio Puddu. Il fortissimo picchiatore sardo riporta di colpo la categoria dei pesi leggeri ai vertici continentali. Secondo alcuni esperti fu pugile che ha avuto fama inferiore ai suoi grandi meriti. Da dilettante conquistava il titolo mondiale militari a Monaco di Baviera nel 1965 tra i pesi piuma. Stabilizzatosi nei leggeri passava al professionismo l’anno successivo. Un artista dal KO facile come dimostrano le ventotto vittorie prima del limite nei suoi primi trentasette match compreso quello che gli valeva il titolo italiano su Enrico Barlatti nel settembre del 1970. Allo stadio Amsicora di Cagliari Tonino Puddu diventava il primo pugile sardo a cingere la cintura di campione italiano dei pesi leggeri. Vittoria indiscutibile, ma le sue aspirazioni andavano oltre le ambizioni nazionali. Nominato sfidante ufficiale all’europeo abbandonava il titolo italiano per dedicarsi a percorsi più affascinanti. A Barcellona il primo approccio con la corona continentale falliva per colpa di un arbitro inglese che salvava, con un verdetto scandaloso di parità il detentore Miguel Velasquez, che aveva disputato buona parte del match “groggy” o quasi. La verità si ristabiliva sei mesi più tardi a Cagliari dove il gancio sinistro del sardo esplodeva in tutta la sua potenza sulla mascella dello spagnolo che resisteva meno di quattro riprese dopo vari atterramenti. Ormai lanciato a grandi livelli macinava avversari uno dopo l’altro. A Sanremo respingeva in un duro confronto il negretto della Guadalupe di nazionalità francese Claude Thomias, il quale si rivelava fortissimo incassatore oltre che pericoloso stoccatore. Anche l’altro francese Jean Pierre Le Jaouen terminava in piedi ma battuto nettamente. Al Palasport di Milano si assistette ad uno dei più palpitanti combattimenti dall’epoca di Sandro Mazzinghi. Due atterramenti ai danni di Puddu e uno per Le Jaouen con il pubblico tutto in piedi palpitante per la drammaticità dell’incontro. Un altro duro combattimento lo aspettava a Quartu S.Elena: l’elegante ma pungente romano Enzo Petriglia lo impegnava a fondo prima di cedere alla forza del cagliaritano. L’aria natia faceva molto bene all’isolano che nella sua città sbrigava la pratica Dominique Azzaro nel giro di pochi minuti. Fu uno strano match, interrotto per il getto della spugna un primo momento e fatto riprendere dall’arbitro dopo che il ring fu invaso dai festanti sostenitori di Puddu. Sgomberato il ring a Puddu bastavano pochi colpi per vedere il francese fermato definitivamente. Il sospirato mondiale era alle porte. Il titolo iridato targato WBC si sarebbe disputato a Los Angeles. A ventinove anni, nel pieno della maturità fisica, il sardo giocava tutte le sue chance contro Rodolfo “El Gato” Gonzales, in. un confronto tra picchiatori che difficilmente sarebbe arrivato alla fine delle riprese fissate. Il combattimento molto duro finiva alla decima ripresa, fermato dall’arbitro quando il cagliaritano presentava l’occhio sinistro completamente chiuso. Non aveva combattuto al meglio Tonino e la sua convinzione lo portava a credere che gli avessero somministrato qualcosa di strano capace di influire il suo rendimento. Vero o falso che fosse, iniziava il suo declino. Gli era rimasto il titolo europeo e lo sfidante ufficiale, lo scozzese Ken Buchanan, già campione del mondo della categoria dimostrava tutta la sua pericolosità tra le corde, battendolo nel sesto round sul ring del Sant’Elia. Le due sconfitte intaccarono le sue certezze, l’era dei grandi successi era terminata. Falliva poi la conquista del’europeo dei pesi superpiuma a Oslo, superato dall’imbattuto campione Sven Erik Paulsen, e l’anno dopo anche l’ultimo assalto alla corona di campione d’Italia. A Milano Vincenzo Burgio gli chiudeva irrimediabilmente le porte ai titoli. Tre anni dopo terminava definitivamente a 35 anni la sua stagione di pugile. La passione per la boxe non poteva spegnersi in questo modo così Tonino Puddu ha continuato a respirare l’aria del pugilato come organizzatore.
Al decimo posto colloco Mario Vecchiatto. Divenne suo malgrado un personaggio, tanta era la sua modestia fuori dal ring. Un campione che ha saputo raggiungere eccellenti risultati pur combattendo in un periodo ricco di fuoriclasse. Dopo aver conquistato il campionato nazionale nei welter leggeri a Bologna nel 1953 passava al professionismo. Aveva 23 anni ed il suo avvio fu subito promettente. Al ventitreesimo match affrontava una prima volta Bruno Visintin per il titolo italiano dei pesi leggeri, a La Spezia, soccombendo alla maggior esperienza dello spezzino. Al suo secondo tentativo, contro Marcello Padovani, era una discussa sconfitta per squalifica a condannarlo. L’appuntamento con la corona italiana era solo rinviato. Sul ring di Lignano Sabbiadoro, davanti ai suoi tifosi, piegava l’ostinata difesa del campione in carica, il pavese Annibale Omodei. La conquista del titolo gli spianava la via ad un confronto importante contro il campione d’Europa Duilio Loi. Il friulano andava oltre ogni previsione costringendo il grande avversario ad un pareggio che lo consacrava a sua volta tra i migliori della categoria. Neanche un mese dopo respingeva l’assalto di Bruno Ravaglia a Lugo e Germano Cavalieri sul ring di casa. A quel punto Mariolino era pronto per traguardi superiori. Duilio Loi abbandonava il titolo europeo e passava di categoria. La vacante corona se la disputarono il nostro ed il francese Lahouri Godih. Al Palazzo dello Sport di Milano fu un combattimento rovinato dalle scorrettezze del francese il quale, avendo faticato molto a rientrare nei limiti della categoria, aveva capito che non avrebbe retto alla potenza del friulano, cercando una poco gloriosa sconfitta per squalifica. Due vittoriose trasferte in Francia furono il preludio al viaggio a Londra per difendere la sua corona dal pericoloso assalto di Dave Charnley. Purtroppo le previsioni negative si avverarono: Vecchiatto a disagio contro il mancino inglese, al decimo round con un gesto istintivo alzava il braccio. L’arbitro immediatamente arrestava il match a favore dello sfidante. Fino a quel momento si era ben comportato malgrado due atterramenti. Tre mesi dopo perdeva anche il titolo italiano a favore di Giordano Campari. Quattro mesi dopo le due sconfitte consecutive riprendeva la via del ring con il solito entusiasmo. In questo periodo otteneva confortanti risultati come le vittorie su Franco Nenci, Boby Ros, Paul Maolet ed il pareggio con il futuro campione del mondo dei pesi piuma Joe “Rafiu” King. Le sole due sconfitte avevano per nome Fred Galiana e Angel Robinson Garcia, due campioni che gli sportivi di una certa età ben ricordano. Nel giugno del 1962 Giordano Campari non difendeva il titolo italiano e decadeva. A contendersi il primato nazionale furono Mario Vecchiatto e Renato Giacchè. Il match si disputava in casa del rivale, a Roma, e per una buona metà delle riprese si mantenne sul filo del pareggio. La maggior esperienza del pugile guidato dal maestro Morgante ebbe il sopravvento quando il ritmo del potente Giacchè cominciava a diminuire d’intensità. Un continuo e preciso lavoro al corpo gli permetteva di ritornare in possesso del titolo già suo due anni prima. Sei mesi dopo, con il viatico di un pareggio con Sandro Lopopolo attendeva a piè fermo l’assalto di Franco Brondi. Il livornese, forte di un curriculum pieno zeppo di vittorie prima del limite, lo sfidava sul ring di Lignano Sabbiadoro. Il combattimento manteneva in pieno le previsioni della vigilia. Fu una battaglia sul filo del rasoio tra la potenza dello sfidante e l’esperienza del campione. Questi, malgrado l’handicap di una ferita al sopracciglio sinistro causata da un violento destro di Brondi, riusciva con un’ultima ripresa al cardiopalmo a sopravanzare di un solo punto il forte avversario. Nessuno in quel momento pensava che quello appena concluso sarebbe stato l’ultimo match di una brillante carriera. Mario Vecchiatto si ritirava. Sempre modesto si trovava un posto come impiegato comunale presso gli impianti del Tennis Club Udinese. Un male incurabile gli troncava la vita a soli 56 anni. Pietro Anselmi
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