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UNA PROMESSA È UNA PROMESSA

31/08/2014 - 13.46.55

 

Il ricordo di Rocky Marciano nell'anniversario della sua morte

di  Alessadro Bisozzi

‹‹Tenetevi, antiche terre, i fasti della vostra storia. Datemi coloro che sono esausti, i poveri, le folle accalcate che bramano di respirare libere, i miseri rifiuti delle vostre coste brulicanti; mandatemi chi non ha casa, squassato dalle tempeste, sollevo la fiaccola accanto alla porta d’oro!›› 
Emma Lazarus, poetessa americana.
Targa posta all'interno della Statua della Libertà.
 
Pierino Marchegiano (Quirino prima di arrivare a New York) era di Ripa Teatina, in provincia di Chieti, Pasqualina, sua moglie, di San Bartolomeo in Galdo, in provincia di Benevento.
Avevano lasciato l'Italia prima ancora di conoscersi, nei primi anni del secolo scorso, poi, dopo essersi sposati nel 1921, si stabilirono a Brockton nel Massachusetts, dove Pierino trovò lavoro in una fabbrica di scarpe.
Rocco, il loro figlioletto, aveva appena un anno quando contrasse la polmonite, le sue condizioni si aggravarono in pochi giorni. Suo padre non voleva crederci, ma quella piccola creatura stava morendo tra le sue braccia e lui non poteva farci nulla. Pregò il cielo, fece voti e promesse, si rivolse perfino a una guaritrice e alla fine le sue suppliche furono accolte: il bambino si salvò. Lassù qualcuno lo amava.
Cresceva bene il piccolo Rocco, in altezza non molto per la verità, ma era forte e robusto e con un appetito da giovane leone.
Quando vide per la prima volta quella fotografia non credette ai suoi occhi. C'erano tre persone in piedi, l'uomo al centro svettava come fosse sopra uno sgabello. Ma non c'era nessuno sgabello, non c'erano trucchi. Suo zio Mike si divertiva ad osservarlo e gli diceva: «Questo è l'uomo più forte del mondo, un gigante, italiano come te. Si chiama Primo Carnera ed è un pugile. Tu devi essere fiero di appartenere alla sua stessa stirpe. Una stirpe di lottatori, fieri e forti
Effettivamente, da quando Carnera era arrivato negli Stati Uniti, nel gennaio del 1930, non aveva fatto altro che lottare. Lottare e vincere. In soli nove mesi si buttò alle spalle ben ventitré combattimenti, il più lungo dei quali durò appena sei riprese. Li vinse tutti per knock out.
Diventò un mito, non c'era personaggio pubblico che non voleva farsi ritrarre con lui mentre gli tirava un pugno. I divi di Hollywood accorsero a frotte quando arrivò in California. Chiunque gli si avvicinasse, per alto e massiccio potesse essere, era sempre costretto a guardarlo dal basso.
La sua fama di pugile imbattibile era tale che qualcuno pensò di inventare una nuova categoria di peso per lui. Gli americani erano stufi di veder crollare al tappeto tutti i loro migliori pesi massimi.
Alla fine del 1931 arrivò Jack Sharkey, il quale gli fece provare il primo knock down. Carnera perdette ai punti in quindici riprese, ma dopo ricominciò a vincere, vincere, vincere, come voleva il Duce dall'altra parte dell'oceano.
Dai giornali che leggeva suo padre, Rocco ritagliava tutte le cronache dei combattimenti di Carnera; "l'Alpe che cammina lentamente" era ormai una leggenda. E il ragazzo di origini italiane amava sempre di più la patria dei suoi genitori. L'ammirazione per quel campione cresceva ogni giorno, perché ogni giorno si parlava di lui, dell'imbattibile gigante friulano.
Il 29 giugno del 1933, Carnera ebbe la sua rivincita su Jack Sharkey. Una rivincita che valeva il massimo dei titoli. Egli poteva rifarsi sul marinaio dal pugno come un martello e diventare il primo pugile italiano campione del mondo.
Papà Pierino gliel'aveva promesso. Un giorno o l'altro avrebbe portato Rocco a vederlo di persona quel gigante, il suo idolo. Quale migliore occasione, pensò. 
Lo zio Mike provvide a tutto, i biglietti per il Madison Square Garden Bowl e quelli per il treno, andata e ritorno.
Mike, Pierino e Rocco arrivarono a New York nella tarda mattinata, poi nel pomeriggio si avviarono allo stadio, nel quartiere del Queens, a Long Island.
Rocco aveva dieci anni e la cosa più grande che aveva visto, fino ad allora, era la fabbrica dove lavorava suo padre. Attraversò Manhattan tenendosi stretto alla mano dello zio, mentre guardava in alto, tra le strette fessure dei grattacieli che sembravano trattenere le nuvole di passaggio. Quando entrò in quello stadio rimase letteralmente a bocca aperta. Era qualcosa di incredibile, mastodontico, assolutamente sproporzionato intorno ai minuscoli trentasei metri quadrati del ring. Era posto in un enorme avvallamento naturale del terreno, sfruttato per dare la necessaria pendenza alle tribune.
Si era svenato per quei posti in prima fila, ma una promessa è una promessa e Pierino volle onorarla fino in fondo. Aveva meravigliato tutti quando al lavoro sventolò quei biglietti che gli avrebbero permesso di sedere a pochi metri dal ring.
Dopo ore di estenuante attesa, alleggerita da alcuni incontri di contorno, l'annuncio. Carnera stava arrivando.
Contrariamente al solito, il primo a salire sul quadrato fu il campione del mondo in carica Sharkey, il quale salutò, con una calorosa stretta di mano, l'ingresso dello sfidante.
Rocco non stava più nella pelle, diverse volte si alzò per gridare al campione incitamenti in italiano. La confusione era tale che le sue parole si perdevano irrimediabilmente tra gli schiamazzi delle decine di migliaia di spettatori presenti. Gridava, gridava a più non posso, poi con un improvviso scatto si avvicinò all'angolo e con tutto il fiato che aveva in gola urlò: «Carnera, Carnera, io sono italiano, come te
Si girarono tutti i componenti dell'entourage, compreso Primo. Quel richiamo, quella piccola voce che gridava in un italiano stentato, ma nitido e squillante, fu più forte di qualunque frastuono per le orecchie del gigante.
I due si guardarono per alcuni istanti. Rocco rimase di ghiaccio quando incrociò gli occhi del campione. Sentì il suo cuore battere come un tamburo fin dentro le orecchie. Primo fece un gesto verso di lui, un saluto impacciato con il grosso guantone che non gli permetteva di aprire la mano.
Pierino lo richiamò con una certa apprensione, aveva assistito a tutta la scena e rimase allibito dal saluto di risposta che il pugile italiano concesse al figlio.
Lo zio Mike gli diede una pacca sulla spalla, ammirato e compiaciuto per quella innocente bravata, poi, estasiato dall'ardire del giovane nipote, lo osservò ancora a lungo. Cosa pensava quel ragazzino che non riusciva a staccare lo sguardo da Carnera? Deve esserselo chiesto Mike, perché un giorno, diversi anni dopo, gli disse: «Io lo sapevo, si l'ho sempre saputo Rocco, te l'ho letto negli occhi.»
Primo vinse l'incontro. Alla sesta ripresa, un montante destro, all'uscita di un corpo a corpo, fulmina Sharkey e lo addormenta per un paio di minuti. Al termine del conteggio, Carnera corse da lui accertandosi delle condizioni. Quattro mesi prima, al Madison Square Garden, Ernie Schaff non si risvegliò più dal k.o. che gli inflisse al tredicesimo round, e per un attimo aveva rivissuto quella terribile scena.
Rocco vide l'americano crollare al tappeto a faccia avanti, era a pochi passi e nonostante il baccano intorno a lui, sentì distintamente il tonfo terribile dei novantadue chili del campione del mondo abbattersi sul tavolato.
Si spolmonava, ma non riusciva nemmeno a sentire la sua voce, la folla era in delirio. Si avvicinò di nuovo al ring, suo padre allora lo prese al volo, ma qualcuno si accorse di lui e gli chiese di aspettare.
Furono spinti vicino alla scaletta, il vociare dei secondi indaffarati ora arrivava distintamente, in italiano. Rocco capiva, a casa sua si continuava ad usare la lingua madre, il cordone ombelicale mai tagliato con la Patria.
Carnera stava scendendo dal ring; il manager, Luigi Soresi, era davanti a lui, si fermò un attimo e chiese al ragazzino: «Come ti chiami piccolo?». Rocco fu preso alla sprovvista e non riuscì a rispondere, lo fece suo padre.
Soresi lasciò il passo al gigante che gli si parò innanzi. Il ragazzino si trovò davanti al nuovo campione dei pesi massimi, l'uomo più forte del mondo, il suo idolo; gli sembrò di far fatica a tenere la testa all'indietro per guardarlo da vicino.
Primo si chinò verso di lui, gli infilò le mani sotto le ascelle e lo sollevò in aria, oltre la testa. Rocco si ritrovò in un attimo a tre metri di altezza, da lì poteva vedere tutto lo stadio, migliaia di sguardi erano su di lui. Poi lo mise a sedere sul suo avambraccio sinistro, ora lo guardava dritto negli occhi, a trenta centimetri di distanza.
Rocco si aspettò di scorgere lo sguardo di un leone, la fiera baldanza di un guerriero che aveva appena vinto la sua ultima battaglia. Ma riuscì solo a riconoscere gli occhi di un uomo stanco, come quelli di suo padre la sera, al ritorno dal lavoro.
La sua voce, invece, sembrava uscire da un grammofono scarico, profonda e pacata: «Bravo ragazzo, sii sempre orgoglioso di essere italiano». Due buffetti sulle guance, con quelle mani adatte a massacrare avversari duri come l'acciaio, completarono il saluto che Soresi, sempre accorto alla propaganda pur di guadagnarsi le simpatie di Mussolini, lasciò concedere a quel ragazzino in rappresentanza di tutti gli italiani d'America.
Il ricordo di quella giornata rimase per sempre racchiusa nel suo cuore.
 
Rocco giocava al baseball, sport nazionale negli Stati Uniti, ma non riuscì mai a diventare un buon giocatore. Era abbastanza lento, un po' pesante e poi... non aveva sufficiente forza di lancio nel braccio destro.
Passò un anno e il 14 giugno 1934 Carnera perse il titolo contro uno spietato picchiatore californiano, Max Baer, che lo umiliò scaraventandolo al tappeto ben undici volte davanti a settantamila persone e al suo amico Vittorio Tamagnini, campione italiano dei pesi piuma, che da bordo ring non poté fare nulla per aiutarlo.
Passò ancora un altro anno. Carnera tornava a New York dopo una breve tournée in Sudamerica.
Gli organizzatori trovarono uno spilungone quasi più alto di lui, Ray Impellittieri, soprannominato "Grattacielo". Primo ebbe qualche difficoltà, poi riuscì a trovare la giusta misura contro un avversario con un allungo spaventoso, e alla nona ripresa l'americano fu dichiarato fuori combattimento.
 
In pochi, fino ad allora, si erano fatti un'idea del ventunenne Joe Louis, il pugile nero dell'Alabama, professionista da soli undici mesi e con all'attivo diciannove incontri tutti vinti.
Egli non aveva ancora affrontato le teste di serie della classifica, ma una cosa era certa, quindici vittorie prima del limite, di cui undici risolte non oltre il terzo round, facevano di lui, se non altro, un soggetto molto pericoloso.
Vita dura in quegli anni per i pugili neri. Ogni volta che provavano a sfidare un bianco si scatenavano i peggiori umori di un Paese che aveva accettato a malapena la fine della schiavitù, ma che ancora non gradiva la parità dei diritti tra persone dal diverso colore della pelle.
 
 
Rocco non si era mai posto il problema, ma quella sfida tra Carnera e Louis aveva qualcosa di diverso dalle altre.
Da una parte c'era un giovane nero emergente, bello ed elegante, raffinato e piuttosto forte e con gli stessi gusti dei bianchi, a cominciare da uno sport d'elite per eccellenza: il golf. Dall'altra, un atleta diventato leggenda, il colosso italiano ormai quasi americano, la cui prestanza fisica, da sola, avrebbe dovuto scacciare qualsiasi minaccia al predominio della razza bianca.
Il combattimento tra Carnera e Louis avvenne la sera del 25 giugno 1935 allo Yankee Stadium, nel quartiere del Bronx. Primo è di otto anni più vecchio dell'avversario, una differenza non di poco con i ritmi imposti dai numerosi impegni. Una differenza che si scorge nettamente già all'avvio. Louis si avventa su di lui e lo colpisce più volte al viso col diretto destro; bordate precise e micidiali, una delle quali apre una larga ferita sul labbro del friulano, uno squarcio piuttosto grave da cui inizia un'abbondante e prolungato sanguinamento.
Il confronto prosegue con alterne vicende fino alla sesta ripresa. L'epilogo.
Louis si muove come un gatto, tranquillo e sornione, poi all'improvviso scatta in avanti lanciando le sue pericolosissime zampate che lasciano sempre il segno. Carnera è alle corde, un potente sinistro gli arriva alla mascella, lui barcolla di lato, si riprende, si sposta al centro del ring ma un devastante diretto destro al viso lo scaraventa al tappeto come un manichino. Primo prova a rialzarsi, cade all'indietro, si risolleva, sbanda di lato, Louis si getta su di lui, ancora qualche istante, prende la mira e spara.
Un diretto destro con una traiettoria leggermente in salita, un colpo secco che intercetta, calibrato al centimetro, lo spostamento a sinistra dell'avversario. Un'esecuzione semplice e perfetta.
Carnera è nuovamente al tappeto, in ginocchio. Si rialza, appare sfinito, Louis gli è di nuovo addosso, gli assesta qualche altro tiro di aggiustamento, fino al doppietto finale.
Due diretti splendidi, prima il destro poi il sinistro, da manuale. L'italiano è ancora a terra, si risolleva ma non ce la fa più ad essere massacrato. L'arbitro riesce a percepire a malapena la sua supplica, uscita dalla bocca devastata e gorgogliante sangue, e senza indugio ferma il combattimento.
Louis ha vinto.
Rocco non dimenticherà mai la faccia di Carnera.
Non l'aveva vista dopo l'incontro con Max Baer, ma questa sera è di nuovo qui, tra il pubblico, e quel labbro orrendamente tagliato in due su una faccia gonfia come una mongolfiera è un'immagine che non dimenticherà mai più.
Guardò Louis a lungo, con odio, e fece una promessa.
Un plotone di poliziotti circondava il ring, quattro di loro salirono piazzandosi su ciascun lato; si respirava un'aria ostile pesantissima, un clima torbido e maligno, dove tra l'altezzosa indifferenza dei bianchi esultava solo chi aveva la pelle nera.
Rocco odiava Joe per com'era finita, lo odiava perché aveva umiliato il gigante buono davanti a migliaia di persone, lo odiava perché era troppo giovane per poterlo fare, lo odiava perché Carnera era italiano e aveva gli occhi miti e un dolore profondo dentro il cuore, un penoso rimorso che non si sarebbe mai più cancellato.
 
 
Rocco cominciò a lavorare, faceva il muratore, a vent'anni si arruolò nell'esercito e quando tornò a casa si decise, con l'aiuto dello zio Mike, l'unico ad aver capito tutto, ad iniziare la carriera di pugile.
Per il peso, circa ottantacinque chili, i suoi 178 centimetri di altezza non erano un gran che, ma quel fisico tarchiato era di una resistenza unica e inoltre possedeva un destro di una violenza impressionante.
Sua madre Pasqualina non voleva che il figlio praticasse quello sport così violento, allora lui cominciò a farlo di nascosto.
Debuttò professionista nel 1947, lo stesso anno in cui Louis difese, per la venticinquesima volta, il proprio titolo mondiale dei pesi massimi conquistato dieci anni prima.
L'anno dopo, Louis concesse la rivincita a Joe Walcott, lo batté per k.o. all'undicesima ripresa e si ritirò da imbattuto campione del mondo.
Nonostante tutti i suoi sforzi, Rocco aveva perduto la rincorsa e non poté onorare la sua promessa di incontrarlo sul ring.
Comunque la sua carriera proseguì con risultati sorprendenti; nessuno dei primi sedici combattimenti, compiuti in due anni, arrivò oltre il quinto round. Gli avversari cadevano come mosche dopo essere stati colpiti dai suoi terribili pugni. Rocco possedeva delle armi terrificanti, due magli pesantissimi dagli effetti devastanti.
 
Non sempre la vita è tutta rose e fiori, tanto meno per un pugile che durante la carriera ha guadagnato somme rilevanti, regolarmente ripulite da manager senza scrupoli.
A due anni dal suo ritiro, Joe Louis fu costretto a rientrare in attività e a battersi contro un picchiatore d'eccezione, il campione del mondo Ezzard Charles, in un match che perdette ai punti al termine di quindici pesantissime riprese.
La borsa non bastò a risolvere i problemi e Joe programmò altri incontri, per tutto il 1951.
Rocco, che nel frattempo si stava avvicinando a grandi passi verso il campionato del mondo, rinfocolò le speranze.
Aveva avuto un piccolo stop alla fine del 1949, quando affrontò Carmine Virgo, al Madison Square Garden, quasi uccidendolo. Rocco passò la notte pregando in una chiesa per la vita dell'avversario che solo poche ore prima aveva massacrato per sei round. Alla fine Virgo ce la fece, ma non mise mai più piede sul ring.
I destini di Rocco e Joe stavano ineludibilmente per incrociarsi, con un andamento lento e inesorabile, come il copione di una tragedia shakespeariana.
L'incontro fu fissato per il 26 ottobre 1951.
Erano passati sedici anni quattro mesi e un giorno da quando la faccia massacrata di Carnera si era impressa nella memoria di Rocco come su una lastra fotografica.
Il Madison Square Garden è sempre stato il palcoscenico per eccellenza della boxe, la sede consueta e naturale di una disciplina antica e sanguinosa, di uno sport dove l'atleta è completamente solo davanti alle sue incertezze, alle sue paure, alle sua ansie.
Su quel palcoscenico il pugile può vincere o perdere, in ogni caso deve combattere. Ed è quello che fecero i due campioni.
In nessun istante dei ventiquattro minuti del confronto si sottrassero alla lotta. Fu uno scontro duro, violentissimo.
La differenza tra i due era ragguardevole, in ogni aspetto. A favore di Louis c'erano, oltre a quattordici chili di peso, dieci centimetri in altezza e più di venti nell'allungo. Per contro, Rocco aveva nove anni meno e un pugno assai più potente.
L'ex campione del mondo, comunque, appariva notevolmente appesantito, aveva perso lo smalto di una forma fisica perfetta.
Durante la carriera aveva sempre mantenuto il suo peso sotto i novanta chili, che distribuiti lungo i 188 centimetri di altezza ne facevano una macchina da combattimento invincibile.
Ora pesava novantasette chilogrammi, decisamente tanti, troppi per lui.
Il match andò avanti con brutale accanimento da ambo le parti. Louis più attento a non farsi sorprendere dai micidiali colpi dell'avversario, l'altro impegnato a trovare la giusta misura.
All'ottavo round, un gancio sinistro si abbatté sulla mandibola di Louis che cadde all'indietro fino alle corde. Il "Bombardiere nero" era al tappeto. Per riprendersi aspettò in ginocchio il conteggio dell'arbitro, poi si rialzò e Rocco gli fu di nuovo addosso. Venti secondi dopo, un montante sinistro potentissimo fece crollare le residue difese di Louis.
Fu come se lo avessero fulminato, Joe rimase per un attimo in piedi, appoggiato alle corde e con le braccia abbassate. Rocco ebbe tutto il tempo di spostare indietro la gamba destra, mirare e sparare il diretto con l'intero peso del corpo. Un colpo di una violenza inaudita che esplose sulla faccia di Louis e lo spedì fuori dalle corde.
L'ex campione del mondo dovette essere soccorso prontamente e riprese conoscenza solo dopo sessanta lunghissimi secondi.
A sedici anni quattro mesi e un giorno da quella promessa, il conto era chiuso.
Joe Louis si ritirò dalla boxe.
Quel ragazzo che Carnera sollevò in aria davanti a settantamila persone, per salutare ed onorare tutti gli italiani d'America, lo aveva vendicato.
L'anno dopo, nello stadio municipale di Philadelphia, Rocco conquistò il mondiale dei pesi massimi battendo, per k.o. alla tredicesima ripresa, Jersey Joe Walcott.
Egli difese il titolo per sei volte.
L'ultimo incontro di Marchegiano si svolse nello stesso luogo dove aveva fatto quella promessa, lo Yankee Stadium. L'avversario era il campione del mondo dei medio-massimi Archie Moore, un fuoriclasse leggendario di trentanove anni con all'attivo 175 combattimenti di cui 148 vinti e 85 k.o. inferti.
Era il 21 settembre 1955.
 
 
Fu uno scontro epico, Rocco picchiò Moore senza interruzione per quasi mezz'ora. Al termine dell'ottavo round, colpito da un diretto destro, il campione dei medio-massimi andò al tappeto e solo la campana che suonò al quinto secondo lo salvò dall'out. Era il preludio della fine.
Al nono round, Rocco scatenò una violenta offensiva, inchiodando Moore alle corde e bersagliandolo di colpi a ripetizione. Una lunghissima serie a due mani che durò quasi due minuti. Un autentico calvario per il pugile nero, che non riuscì a rispondere né a difendersi con efficacia.
Dove Rocco riuscisse a prendere tanta energia è sempre stato un mistero.
Alla fine arrivarono due sinistri, un gancio cortissimo seguito a ruota da un diretto. Precisi, veloci e potenti come una cannonata. Moore crollò sulle sue gambe e ci rimase seduto sopra, appoggiato all'angolo. Alla fine della conta dovettero sollevarlo di peso e sistemarlo sullo sgabello.
Quel k.o. lo tenne lontano dal ring per cinque mesi.
 
La "vecchia mangusta" si ritirò solo nel 1963, alla veneranda età di quarantasette anni, con 185 vittorie all'attivo.
 
Per Rocco Marchegiano, invece, fu l'ultimo combattimento.
Si ritirò da campione del mondo dei pesi massimi; unico pugile imbattuto nella storia del pugilato.
Anni dopo, Rocco dimostrò a tutti che con Louis non fu una questione personale e tanto meno che il razzismo avesse alimentato la violenza dei suoi pugni. Quando Louis cadde in disgrazia in seguito a problemi fisici e finanziari, egli non esitò un solo istante per aiutarlo.
 
Il 31 agosto 1969, Rocco Marchegiano - Rocky Marciano per gli americani - precipitò col suo aereo privato nei pressi della cittadina di Newton nell'Iowa e morì insieme ad un amico e al pilota.
 
Al suo funerale, Joe Louis disse: «Qualcosa è andato via dalla mia vita. Non sono solo: qualcosa è andato via dalla vita di tutti».
 
Alessandro Bisozzi