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DA CLAY AL 'GRANDE' ALI, ANALISI DI UN CAMPIONE UNICO

 

 

Una parabla particolare, in tutti i sensi

di Alfredo Bruno

Mouhammad Alì non ce l’ha fatta, stavolta l’avversario era invincibile. Ricoverato d’urgenza due giorni fa all’ Ospedale di Phoenix si è capito subito che per lui stava suonando l’ultimo gong. Sono frasi stereotipate quelle che scriviamo, di circostanza, ma come non parlare così di colui che ha impersonato la quintessenza della boxe in tutte le sue composizioni. Oggi si parla di pugilato moderno, Olimpiadi, titoli a grappoli, eroi che vanno e vengono con la velocità di una nave spaziale. Ma lui non c’entra niente con tutto questo bailamme, perchè la boxe è lui. Sfido chiunque che voglia parlare di pugilato a non nominarlo, a non ricordarsi di lui. Tutto il mondo lo conosce, quando dico tutto dico anche quelli che di pugilato non sanno niente. Lui è stato il numero 1, e su questo si può discutere, ma è stato in assoluto il più importante, è stato il personaggio per eccellenza, non c’è uomo di stato o nazione che in qualche modo non lo abbia nominato oppure lo abbia ricevuto e ascoltato. E’ stato dapprima un personaggio amato e odiato, ma dopo il suo ritiro è stato solo amato. Ed è un’ incredibile casualità  che un simile personaggio sia uscito proprio da quelle Olimpiadi di Roma del 1960. Allora si chiamava Cassius Clay e in qualche modo è stato insieme a Nino Benvenuti la star di cui si parlava di più e il personaggio che più incuriosiva. Non la smetteva mai di chiacchierare con la sua voce da ragazzo 18enne. Troppo bello, troppo perfetto, troppo sicuro di sè, troppo ciarliero. Però aveva le fissazioni e le paure della sua età: il terrore di volare in aereo faceva compagnia alla sua golosità nell’ingurgitare bottigliette di Coca Cola. Gli italiani facevano il tifo per Benvenuti, il predestinato, ma seguivano con la coda dell’occhio Cassius Clay. Era un mediomassimo longilineo, armonioso, e lasciava di stucco il suo gioco di gambe, le sue mani abbassate che scattavano all’improvviso con una velocità mai vista neppure nelle categorie più piccole. Il belga Yvon Becaus e il potente russo Gennadi Schatkov furono bypassati con facilità, ma l’australiano Tony Madigan gli diede parecchio filo da torcere, tanto da far pensare che contro il polacco Zbigniew Pietrzykowski, protagonista della scena mondiale coi suoi 300 e passa combattimenti, non ce l’avrebbe fatta. Fu proprio contro quest’ultimo che il “ragazzino” di colore diede una dimostrazione di classe che lasciò gli spettatori di stucco. Fu lui a contendere il premio Val Barker al nostro Benvenuti come miglior pugile del Torneo.
Passò immediatamente al professionismo. Un allenamento più solido e la sua crescita fisica lo misero subito in luce. La categoria all’epoca era dominata da Sonny Liston, un orso malvisto e ritenuto imbattibile per la sua terrificante potenza. Che fosse un fuoriclasse lo si capì fin dai primi incontri dove mise sotto gente di caratura internazionale come Donnie Fleeman, Alex Miteff, Lamar Clark, Alejandro Lavorante. Fu Archie Moore a fargli l’esame di laurea. Cassius sbalordì tutti e “La Mangusta” durò appena quattro riprese. Il Rubicone era stato attraversato e ormai ogni match diventava un appello o un guanto di sfida contro Liston. Doug Jones ce la mise tutta ma fu sconfitto senza appello. Qualche problema al Wembley Stadium di Londra glielo causò Henry Cooper con un sinistro maligno prima di cedere per ferita. Quando il 25 febbraio del 1964 si trovò davanti Sonny Liston, erano in pochi a credere su una sua vittoria. Alla settima ripresa Liston non si alzò dallo sgabbello, si arrendeva adducendo un dolore alla spalla. Un epilogo clamoroso che fece gettare fiumi di inchiostro, ma di una cosa bisognava tener conto, Liston aveva sempre più difficoltà a colpire un bersaglio che nonostante i suoi 96chili sembrava imprendibile mentre il jab del suo avversario martorizzava il suo viso. Certo come contorno c’erano episodi strani con strani movimenti e le voci divennero rumors quando nella rivincita Liston fu messo ko al primo round da un destro tanto veloce quanto invisibile, ma il destro rivisto con la tecnica moderna centrò la tempia del campione. Non c’erano più ostacoli, ma soprattutto non c’erano avversari capaci di impensierirlo. Cassius Clay era molto sensibile alla questione razzista che in America aveva raggiunto punte elevate. Tra le sue proteste fu quella di gettare l’Oro di Roma nelle acque del fiume Ohio. Il suo modo spaccone di proporsi, la sua abilità dialettica, la sua protesta continua contro tutto e tutti ne fecero un personaggio di portata “planetaria”. La sua battaglia contro il razzismo fece molto leva in un’epoca turbolenta. Subito dopo la conquista del mondiale si convertì all’Islam e quando nel 1966 fu chiamato alle armi si rifiutò di partire nel Vietnam come “obiettore di coscienza”. Venne condannato da una giuria di soli bianchi. Decise di ritirarsi ma tornò a combattere nel 1971 quando fu assolto per le irregolarità del processo a lui intentato. Nel frattempo si era fatto largo nella più importante categoria Joe Frazier, una macchina da guerra come lo descriveva Norman Mailer, nero anche lui e anche lui vincitore alle Olimpiadi, quelle di Tokyo nel 1964. Smokin aveva un gancio sinistro micidiale e un fisico d’acciaio imperturbabile alla sofferenza.

L’8 marzo del 1971 tutto il mondo seguì il match tra Joe Frazier e Mouhammad Alì, anche in Italia le televisioni in bianco e nero rimasero accese fino alle 6 del mattino quando il match terminò dopo 15 riprese con la vittoria del campione, ribadita da un gancio sinistro all’ultimo round che inviò al tappeto lo sfidante e fu il suggello di una vittoria e di un match che fece epoca. Frazier fu il suo grande antagonista e con il passare degli anni il suo grande amico. Alì vinse dopo per ben due volte in battaglie indimenticabili, ma il suo capolavoro lo compì contro George Foreman, una montagna che aveva frantumato in poche battute Joe Frazier e Ken Norton. Fu una strategia che Alì cominciò dal lato psicologico con le sue dichiarazioni di fuoco e sul ring completò svuotando le energie di Big George con una condotta di gara intelligente che causò un dispendio di energie da parte del suo avversario, fino a quando nell’ottavo round portò il suo attacco definitivo come il torero con il toro. Quel match fu considerato il capolavoro di sempre. Il decalogo di come l’intelligenza avesse avuto ragione della forza bruta. “The Greatest” come ormai veniva chiamato e riconosciuto sembrò dominare la scena dentro e fuori del ring. Molto seguiti i suoi tre matches con “il marine” Ken Norton, che si tolse il lusso di superarlo dopo avergli rotto la mandibola. Una sofferenza indicibile, ma Alì  riusci ugualmente a terminare il match e a prendersi la rivincita in altre due occasioni. Dominò la scena mondiale fino al 1978 anche se il suo fisico mostrava qualche crepa come avvenne contro Leon Spinks. Non stava più bene e qualche avvisaglia del suo male si cominciava a intravedere, anche se tenuto nascosto. Provò un rientro ma Larry Holmes e Trevor Berbick lo ridimensionarono, ma lo fecero in punta di piedi per non umiliare un monumento.
Su di lui si è scritto tanto, molti scrittori e giornalisti si son voluti cimentare, aggiungendo ciascuno quel qualcosa in più per completare un’opera che nel suo insieme può definirsi monumentale. Aveva iniziato nel 1954 e aveva lasciato nel 1981 (+ 56, 35 per ko, - 5).

Alfredo Bruno

 

 

 

 

 

 

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