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I PRIMI DIECI PESI MOSCA ITALIANI

 

Esclusiva classificazione di Pietro Anselmi

Si conclude con la rassegna dei pesi mosca l’appassionata ricerca condotta dall’amico Pietro Anselmi di rivisitare le carriere e i record dei primi dieci ex pugili professionisti italiani di ciascuna categoria di peso. Questa lunga cavalcata promossa da sportenote viene chiusa con il faro puntato sulla più piccola divisione di peso praticata dagli italiani, attraverso la quale la capacità narrativa di Anselmi diviene conoscenza delle maggiori vicende appartenute alla categoria di peso in esame.
Ecco la quattordicesima "sfornata". Con un click sul nome di ciascun pugile si accede al record. Buona lettura.

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Categoria tradizionale nata in Inghilterra nel 1913, attualmente è in via di estinzione per mancanza di elementi umani. La naturale evoluzione della stirpe ha portato ad avere sempre un numero minore di atleti sui 50 kg. In Italia è mancato un campione nazionale per anni. Avevamo un solo pugile, Andrea Sarritzu, ed era campione d’Europa. Ma la categoria nel tempo ha espresso grandi campioni che sono entrati nella leggenda. Uno di questi è stato Salvatore Burruni che di prepotenza ha scavalcato il leggendario Enrico Urbinati, fino a quel momento era unanimemente considerato il migliore.

Salvatore Burruni. Fu atleta completo. Peso mosca naturale dalla boxe veloce e precisa. Disponeva di un sinistro pungente ed un destro corto, maligno e risolutivo. Iniziava il pugilato nella sua città sotto la guida del maestro Franco Mulas. Cosa non ha conquistato in carriera questo grande personaggio del pugilato italiano? Cominciava con il titolo nazionale dei pesi mosca a Grosseto tra i dilettanti nel 1954 replicando il successo l’anno dopo a Parma. Nel 1955 è medaglia d’oro ai Giochi del Mediterraneo di Barcellona e al campionato mondiale militari a Kaiserlautern, medaglia confermata a Napoli nel 1956. Sfortunato ai Giochi Olimpici di Melbourne dello stesso anno e ai campionati d’Europa dell’anno precedente. Ha difeso la maglia azzurra per undici volte prima di passare al professionismo all’età di  ventiquattro anni. Dopo un inizio un po’ stentato per problemi ad un mano, il suo cammino divenne travolgente. Conquistava il titolo italiano dei mosca, lasciato vacante da Aristide Pozzali, il 27 settembre 1958 ad Alghero la sua città, superando Giacomo Spano. Il pubblico accorso numeroso assistette ad un grande combattimento. Il sinistro tagliente dell’avversario non riusciva a contrastare gli attacchi a corta distanza che sarebbero diventati il punto di forza del tambureggiante campione algherese. La stessa sorte la subiva il conterraneo Salvatore Manca sul ring del velodromo Vigorelli di Milano il 27 maggio 1959. Come d’abitudine, il forcing finale del campione si concretizzava al penultimo round, quando lo sfidante toccava il tappeto per un attimo. L’ultima ripresa sanciva la vittoriosa difesa del campione in carica. Sette  mesi più tardi Giacomo Spano ritornava alla carica sul ring del Teatro Selva di Alghero, dove il campionato nazionale dei pesi mosca diede luogo ad un match elettrizzante, vinto con chiarezza. ormai lanciato verso traguardi continentali.  Prima di lanciarsi verso traguardi continentali Burruni consolidava il primato nazionale regolando all’Arena della pallacanestro della sua città il veneto Angelo Rampin e all’Amsicora di Cagliari un Salvatore Manca in declino che non ha saputo replicare la bella prova del loro precedente combattimento. Chiude il 1960 abbandonando il titolo italiano e finalmente può sfidare il finlandese Riisto Luukkonen per l’europeo. Cinquemila tifosi speranzosi nella vittoria del proprio idolo si son dati appuntamento il 29 giugno 1961 nell’Arena di Alghero. Luukkonen dimostra subito di essere degno della corona ancora sul suo capo. Un sinistro diritto come una spada comanda le operazioni, apre una ferita al sopracciglio sinistro di “Tore” e costringe il nostro campione ad un intenso lavoro per cercare la corta distanza a lui più congeniale. Alla decima ripresa un leggero vantaggio era dalla parte del finnico, ma  Burruni, fondista di qualità, innesta la sua marcia superiore, costringe l’avversario ad una strenua difesa e conclude il match stupendamente tra il tripudio dei suoi tifosi. Per quattro bellissimi anni l’Europa sarà il suo giardino. A Sanremo concede una difesa volontaria che sapeva di vendetta all’inglese Derek Lloyd, che ai campionati europei di Berlino nel lontano 1955 lo aveva eliminato con un verdetto bugiardo. Dopo sei riprese durissime l’albionico veniva stroncato dal ritmo dell’algherese. Era quindi la volta del fortissimo ispano-marocchino Mimoun Ben Alì ad impegnarlo a St. Vincent nel giugno del 1962. Fu un match di altissima qualità tecnica fra due eccellenti campioni. Burruni rimarcava la piena maturazione esaltando le sue doti di resistenza, di cuore e di cervello, contro un mancino dal destro pericolosissimo. Dopo soli tre mesi a Milano era il francese Pierre Rossi ad essere respinto nettamente, così come sul ring del campo sportivo Moccagatta di Alessandria la stessa sorte toccava al valoroso René Libeer, solido atleta francese dotato di un preciso e fastidioso sinistro. Burruni, come suo solito, usciva dalla virtuale parità espressa sul ring fino a quel momento, dopo la decima ripresa macinando il francese, costretto ad un’affannosa difesa. Tra un match per il titolo e l’altro, Salvatore non disdegnava un’intensa e vittoriosa attività su tutti i ring della penisola. Sempre in forma e tirato a lucido al suo sesto confronto continentale entusiasmava il pubblico romano contro lo scozzese Walter McGowan, imbattuto fino a quel momento e che dimostrava di essere il campione del futuro. Il sardo ha dovuto trarre dal suo fisico, spremuto per rientrare nei limiti della categoria, tutte le sue migliori energie, risorse di cuore  e morali per venire a capo di un avversario durissimo. Meravigliosamente ancora campione era pronto per il titolo mondiale. L’evento si concretizzava sul quadrato del palazzo dello Sport di Roma il 23 aprile 1965. Un grosso sacrificio economico da parte della I.T.O.S. organizzatrice del combattimento e dello stesso Burruni hanno permesso di portare nella Capitale il tailandese Pone Kingpetch, campione in carica. Fu una marcia trionfale per Burruni, scandita dagli “olè” dei sedicimila spettatori increduli davanti alla superiorità del nostro campione che non ha dovuto neanche spremersi più del dovuto per cogliere  un successo che lo avrebbe posto tra i grandi della categoria. Sulla soglia dei trentatrè anni si concedeva un paio di “divagazioni monetarie”  in due trasferte  coincidenti con un paio di sconfitte: a Buenos Aires con Orazio Accavallo e a Tokyo contro Katsuyo  Takayama. La prima difesa del titolo mondiale avveniva in Australia contro Rocky Gattellari, nato in Calabria ma trasferitosi nel paese dei canguri. A Sydney le insidie non erano da trascurare. Ambienti infuocati (ventimila spettatori) e giudici parziali non fermarono l’azione del nostro campione il quale, lento a carburare, aveva lasciato un vantaggio iniziale allo sfidante. Alla dodicesima ripresa Gattellari, feriva in modo serio Burruni con un destro micidiale. Questo episodio segnava la sua fine perché il campione nella ripresa successiva si produceva in un forcing furioso, costringeva al tappeto il rivale per tre volte con conteggio finale. Nel frattempo la guerra tra enti mondiali portava la WBA a togliere la sua porzione di titolo a Salvatore Burruni .Questi il 14 giugno 1966 accettava di recarsi a Londra per difendere il titolo che la sola WBC gli riconosceva. L’età ma soprattutto il peso (alla vigilia del match ancora un chilogrammo lo divideva dal limite dei mosca) non gli permisero che un’onorevole combattimento, superato dalla freschezza dello scozzese Walter McGowan che aveva battuto un paio d’anni prima. Finisce così la carriera da peso mosca di Salvatore Burruni, terzo campione d’Europa della categoria e primo italiano a cingere la corona mondiale. Le sue imprese lo hanno imposto, senza ombra di dubbio, come il migliore peso mosca di tutti i tempi. Il suo corso da professionista prosegue nella divisione dei pesi gallo nella quale, dopo dieci vittorie con una sola confitta per ferita con il francese Pierre Vetroff, diventa subito protagonista. A Napoli il 10 gennaio 1968, a trentacinque anni, compiva un’impresa meravigliosa. Mimun Ben Alì, l’ispano-marocchino, duro campione europeo in carica, dovette sottostare alla intelligenza, tecnica e scaltrezza, oltre al vigore fisico del sardo. Drammatico confronto che ”Tore“ condusse da par suo fino al nono round, quando un micidiale sinistro al fegato lo piegava sulle corde. Sembrava tutto finito, ma l’esperienza lo salvava; si faceva contare e dopo una ripresa condotta a riguadagnare energie, miracolosamente ritrovava le forze e l’arte che per lungo tempo lo fece primeggiare. Più Ben Alì attaccava alla ricerca del colpo definitivo, più veniva investito da terribili sinistri e bordate incredibili. Una vittoria importante, dato il valore dell’avversario, che lo pone sull’ottavo piedistallo dei pesi gallo italiani in Europa. Sei mesi dopo respingeva l’assalto di Franco Zurlo, a San Benedetto del Tronto, e dimostrava ancora una volta di essere il migliore. Il pugliese, in grande crescita, lo impegnava severamente, perdendo con l’onore delle armi. Burruni compiva prodigi di tecnica e tempismo, fasi di boxe purissima vecchia maniera. Ma non era finita. Il 9 aprile 1969 a Reggio Calabria, a trentasei anni compiuti, un baldanzoso Pierre Vetroff ridotto ad una maschera di sangue, veniva fermato alla nona dopo un vero martirio. Fu l’ultimo combattimento di una carriera fantastica che colloca Salvatore Burruni tra i primi posti dei grandi pugili italiani di tutti i tempi. 

Enrico Urbinati. Era universalmente riconosciuto come il primo campionissimo della categoria e avrebbe potuto arricchire il suo notevole palmares di vittorie con un titolo mondiale. Lo scoppio delle ostilità belliche impediva lo svolgersi del programmato match titolato contro il filippino Little Dado. Urbinati aveva superato brillantemente l’inglese Tiny Bostock nella semifinale mondiale che si disputò a Roma. L’intelligenza e l’intuito, sostenuto da classe purissima, ne fecero un predestinato al suo apparire sui ring della capitale. Venne soprannominato “Piripicchio” per il suo stile funambolico, velocissimo e tecnicamente valido..A soli diciassette anni si laureava campione d’Italia tra i dilettanti a Roma e l’anno dopo si riconfermava a Firenze. Con la maglia azzurra disputava undici combattimenti subendo una sola sconfitta. Dopo aver partecipato senza fortuna agli europei di Budapest staccava la licenza da professionista ed al suo quinto match conquistava il titolo italiano battendo a Milano il duro Carlo Cavagnoli. Fu il classico confronto tra il giovane emergente ed il vecchio campione che non vuole cedere. Per alcuni il pareggio sarebbe stato più giusto ma venne sottolineata la bravura del piccolo marchigiano, pugilisticamente romano, autore di un combattimento superbo, dando prova di quanta classe fosse dotata la sua boxe. L’incontro fu forse prematuro in quanto nella rivincita senza titolo in palio, Cavagnoli fece valere la sua potenza infliggendogli la sua prima sconfitta da professionista. Dopo il primo dispiacere la sua marcia divenne inarrestabile: Umberto Magiozzi, Praxile Gydè, Pedrito Ruiz, Ottavio Gori ed Etienne Ferraro furono le sue vittime illustri prima di difendere la corona italiana dall’assalto di Vincezo Anastasi a Tripoli nel dicembre del 1935 fu una vittoria chiara contro un fighter sempre all’attacco ma dominato con un sapiente uso delle gambe, con schivate e rientri velocissimi. Senza avversari in campo nazionale “Piripicchio” nel 1936 combatteva esclusivamente all’estero con buoni risultati ma conoscendo un paio di sconfitte con l’inglese Peter Kane, che sarà in seguito campione mondiale e con l’austriaco Ernst Weiss, da pochi giorni campione d’Europa. Le facili vittorie su Carlo Mestriner e Gianni Tortolini in difesa del titolo italiano furono il preludio alla definitiva consacrazione a livello continentale. Valentin Angelmann campione in carica abbandonava il titolo ed Urbinati venne prescelto con il francese Pierre Louis a contendersi la corona vacante. A Roma il 5 dicembre 1938 l’italiano dominava l’incontro dall’inizio alla fine, grazie anche alla condizione del transalpino che aveva faticato a rientrare nei limiti della categoria. Urbinati riusciva a far valere la sua sapiente scherma unitamente alla maggiore velocità, aggressività ed intraprendente. Una superiorità costante lo condusse verso una indiscussa vittoria. Fu un trionfo organizzativo al Teatro Parioli gremito all’inverosimile  e con almeno tremila persone fuori dal locale. Fu un esame di maturità per Urbinati che cinque mesi dopo ribadiva la sua superiorità in campo europeo battendo il forte belga Raoul Degryse, dal quale era stato superato a sorpresa a Milano, senza titolo in palio. Il match che si disputò al Teatro Adriano di Roma fu un monologo del campione capitolino, molto attento a non farsi sorprendere come nel loro match precedente. Troppo superiore tecnicamente Urbinati seppe eludere i costanti attacchi del rivale, caparbio e mai domo, con fulminei rientri che gli facevano accumulare punti su punti per un netto successo. Una poco chiara sconfitta con il sardo Gavino Matta ed il sopracitato combattimento vinto contro Tiny Bostock furono il preludio ad un combattimento rivincita con il sardo, con in palio i due titoli in possesso di Urbinati. Vista la netta superiorità dimostrata del pugile di Roma durante le dieci riprese disputate al Circo Massimo, non si capisce come abbia potuto il sardo averlo superato precedentemente. Surclassato duramente, ferito e scosso da un fulmineo montante al mento il sardo sfiduciato abbandonava la contesa, Proprio nel suo periodo migliore l’imponderabile accadeva sul ring del Teatro Verdi di Firenze, dove era in palio il solo titolo italiano contro il tripolino Vincenzo Anastasi. Urbinati non seppe contrastare gli attacchi a mezza distanza che gli venivano portati dallo sfidante con veloci serie alla figura. Di misura ma inequivocabile fu la vittoria di Anastasi. Con le frontiere praticamente chiuse, solo lo spagnolo Fortunato Ortega ebbe la possibilità di calare nella capitale per insidiare, si fa per dire, la corona di campione d’Europa ancora sul capo di Urbinati. Lo spagnolo non si dimostrava all’altezza della situazione e abbandonava il match nel corso del tredicesimo round. Nell’agosto 1942 Urbinati, ancora campione d’Europa, si ritrovava ad essere nuovamente campione d’Italia per decisione della FPI che aveva tolto il titolo ad Anastasi, perché militare ed impossibilitato a difenderlo. In questa situazione “Piripicchio”, fuori forma e poco allenato, al termine di un combattimento caotico e poco brillante, manteneva il titolo contro il più giovane Otello Belardinelli. Furono le prime avvisaglie di una situazione personale che lo fecero optare per il definitivo ritiro dall’attività, cosa che fece da imbattuto campione.

Fernando Atzori. Fernando Atzori nativo di Ales in provincia di Cagliari ribadisce la tradizione isolana al vertice della categoria. Come atleta però si formava a Firenze, dove si era trasferito, presso l’Accademia Pugilistica Fiorentina con il maestro Dino Ciappi. Nel capoluogo toscano svolgeva tutta la sua attività che lo ha portato ad ottenere risultati di rilievo. Grande dilettante, fu campione d’Italia a Pesaro nel 1963; nello stesso anno conquistava  la medaglia d’oro ai Giochi del Mediterraneo ed il  campionato del Mondo militari a Francoforte. Anche la stagione successiva sarà piena di grandi affermazioni: ancora campione d’Italia a Roma, ribadiva la sua superiorità ai mondiali militari di Tunisi e conquistava la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Tokyo al termine di un cammino esaltante fatto di cinque vittorie consecutive. A ventitre anni passava al professionismo pronto a raccoglier l’eredità di Salvatore Burruni a livello europeo. Suppliva alla mancanza di potenza con scatto fulmineo, velocità e colpo d’occhio, che furono le sue principali caratteristiche. Non fu mai campione italiano della categoria, in quanto la penuria di rivali in casa nostra gli permise  di saltare  il graduale cammino e, dopo solo quattordici combattimenti vittoriosi, sfidava il francese René Libeer che era succeduto a Burruni come campione d’Europa. Il match si disputava al Palazzetto ITI di Firenze il 25 gennaio 1967. Il titolo era vacante in quante l’EBU lo aveva tolto al francese d’ufficio e questo fatto incise molto sul verdetto in quanto la parità in questo caso non era ammessa. Il solo punticino di vantaggio per Atzori al termine di quindici riprese tiratissime ed equilibrate gli permisero di conquistare, quarto italiano di sempre, la corona europea. Un richiamo ufficiale a Libeer nel corso del nono round risultava alla fine decisivo. Le polemiche dopo il verdetto si sprecarono, in quanto il francese si era dimostrato più attivo ma anche più scorretto. Atzori,, non completamente entrato nei meccanismi del pugilato professionistico ha saputo contrastare il francese con una scherma più limpida ed un pizzico di efficacia in più. Naturalmente la rivincita entrava nell’ordine delle cose e si concretizzava sette mesi dopo a Levico Terme. Un giusto pareggio lo manteneva sul trono europeo al termine di un match molto combattuto, tra un pugile, Libeer, più completo e solido ma sul finire di carriera, e Atzori, più giovane ma immaturo sia tecnicamente che sotto il profilo fisico. Ma il sardo-fiorentino non poteva  che migliorare e la dimostrazione avvenne a fine anno quando a Berna superava prima del limite lo svizzero Fritz Chervet dopo averlo costretto al tappeto per quattro volte. Subito dopo accettava un incontro troppo impegnativo in Messico contro Octavio “Famoso” Gomez che gli infliggeva il primo dispiacere della carriera. Il suo territorio da coltivare era l’Europa e lo dimostrava una volta di più respingendo con un perentorio successo lo scozzese John McCluskey. A Napoli nel giugno 1968 bastarono dieci minuti a Fernando per distruggere le velleità del campione britannico. Atzori, che non ha mai combattuto per il titolo italiano, a Torino sul finire della stagione dimostrava di non avere rivali in campo nazionale difendendo la corona europea dall’assalto del campione d’Italia Franco Sperati. Il match non ha avuto storia in quanto i generosi assalti dello sfidante erano costantemente ribattuti dal destro d’incontro. puntuale ed efficace di Atzori. L’abbandono di Sperati chiudeva il match alla nona ripresa. Senza avversari in Europa le sue attenzioni si rivolsero al mondo, ma per la seconda volta veniva respinto. Il filippino Bernabe Villacampo  in una virtuale semifinale al titolo assoluto della WBA lo costringeva all’abbandono anche a causa di un infortunio alla mano destra. Il titolo mondiale verrà conquistato pochi mesi dopo dal suo vincitore. Fallito l’ approccio mondiale Fernando Atzori si ributtava con ardore in campo continentale. Lo scorretto francese di colore Kamara Diop arrivava a stento a sentire il gong dell’ultimo round, scosso più volte dai colpi del campione in carica. Non si salvava per la seconda volta Franco Sperati, steso a Cagliari al dodicesimo round da un micidiale montante destro. Stessa  sorte la subiva a Madrid lo spagnolo Andres Sainz Romero in un combattimento a senso unico. Superiorità netta e costante di Fernando fino alla conclusiva dodicesima ripresa con il K.O. definitivo dello sfidante. Altre due vittorie nel 1971: John McCluskey, non convinto della superiorità del campione europeo, ritentava la sorte all’Hallen Stadium di Zurigo ma veniva dominato malgrado il riacutizzarsi del dolore alla mano destra di Atzori. Il malanno si riaffacciava cinque mesi dopo ad Ascona dove superava il francese Gerard Macrez ai punti. Costretto ad usare il solo jab sinistro il combattimento risultava monotono ma con un vincitore indiscusso. La Svizzera che lo aveva sempre salutato vincitore in precedenza diventava improvvisamente terra amara per il nostro campione. A Berna nel marzo del 1972 mentre conduceva seppure a stento il match con Fritz Chervet, accecato da una ditata nell’occhio l’italiano girava le spalle all’avversario con l’intento di abbandonare. Lo svizzero seguitava a colpirlo ed il match finiva in rissa con i “secondi” che a fatica cercavano di dividere i contendenti. Ma ormai il fattaccio era successo e Fernando Atzori dopo cinque anni di dominio perdeva il titolo continentale. L’anno successivo Fritz Chervet rivolgeva le sue attenzioni al titolo mondiale e abbandonava l’europeo. L’italiano ritornava in possesso di quel titolo che fu suo per molto tempo. A Novara, nel locale palasport, di fronte a quattromila spettatori metteva fuori combattimento il francese Dominique Cesari alla dodicesima ripresa con una stupenda combinazione ,gancio sinistro diretto destro, che risultava essere l’unica cosa bella del match .Il declino fisico del pugile italiano si evidenziava nel combattimento successivo. Allettato da una buona borsa accettava la sfida dell’ex-campione e rivale Fritz Chervet, che questa volta indiscutibilmente non gli lasciava scampo. A trentuno anni Atzori cambiava di categoria ma il suo tempo era finito. L’ultimo match perso contro  lo spagnolo Manuel Massò lo consigliava al definitivo ritiro. Scomparve dalle scene pugilistiche, dopo un’attività praticata con scarso entusiasmo, godendosi una  splendida famiglia con un sicuro impiego alla SIP. Fernando Atzori verrà ricordato come un grande della categoria, un filino sotto Salvatore Burruni ed Enrico  Urbinati.

Franco Udella. sardo di Cagliari si pone tra i grandi della categoria. Dopo una prestigiosa carriera tra i “puri”, dove raccoglieva anche meno di quanto valeva, tra i professionisti raggiungeva il massimo a cui ogni pugile può aspirare. Nel 1968 partecipava alle Olimpiadi di Città del Messico tra i minimosca e nella stessa categoria nel 1969 si aggiudicava la medaglia d’argento ai campionati europei di Bucarest. Fu due volte campione d’Italia tra i dilettanti nel 1970 a Sassari  e a Udine  nel 1971. Non aveva fortuna agli europei di Madrid nel 1971 e alle Olimpiadi di Monaco nel 1972. Travolgente invece il suo contributo alla maglia azzurra con tredici vittorie. Tra i professionisti, la sua boxe solida e possente ebbe modo di esprimersi al meglio. Di carattere introverso e spiccio si trovava subito a suo agio militando nelle due categorie più piccole. Dopo diciotto combattimenti dei quali solo due persi per infortuni vari , a ventisette anni gli venne concessa un’opportunità al mondiale  pesi mosca versione WBC nelle mani di Getulio Gonzalez. Sembrava un azzardo ma proprio la sconfitta contro il fortissimo uomo di Maracaibo rivelavano in pieno le sue doti di campione. In vantaggio di quattro punti  alla decima ripresa (lui che non aveva mai superato gli otto round)  veniva sorpreso dalla combinazione vincente del campione del mondo in carica. Pochi mesi dopo la fortuna gli offriva la possibilità di combattere per il titolo europeo, prendendo il posto del designato conterraneo Pireddu, che aveva dovuto dare forfait. A Milano una convincente vittoria in cinque riprese sullo spagnolo Pedro Molledo lo consacrava campione continentale. A cura degli enti mondiali predominanti in quel periodo, siamo nel 1975, nasceva la nuova categoria dei pesi minimosca. Udella, tramite i buoni uffici del suo manager, optava per il WBC e veniva  scelto con il  messicano Valentin Martinez a battersi per la nuova corona. Sul ring del Palalido di Milano il 4 aprile 1975, Udella  superava  il messicano, un picchiatore duro e scorretto. In largo margine di vantaggio il nostro campione, colpito violentemente alla schiena, finiva al tappeto senza avere la possibilità di rialzarsi. L’atzeco di conseguenza veniva squalificato ed Udella diventava il primo campione del mondo della categoria fino ai 49 kg. Non difese il mondiale contro lo sfidante Rafael Lovera, in quanto una misterioso stato febbrile gli impediva di salire sul ring nei tempi prestabiliti. Il previdente cagliaritano non aveva però abbandonato l’europeo che difese dall’assalto dello svizzero Fritz Chervet a Zurigo. Fu un combattimento brutto e scorretto ed i due pugili vennero entrambi squalificati. Il match si sarebbe ripetuto all’inizio dell’anno dopo a Campione, l’enclave italiana in territorio elvetico. Match subito in salita per un destro al volto che lo faceva inginocchiare. Ripresosi il cagliaritano imprimeva un ritmo insostenibile per lo svizzero, votato alla ricerca del colpo duro. Respinto l’elvetico, a Santa Maria di Gallura sistemava il conterraneo Franco Sperati che lo aveva sfidato, disputando un match intelligente e volitivo. Nel frattempo la corona mondiale dei minimosca era stata conquistata dal fortissimo picchiatore Luis “Lumumba” Estaba dominatore della categoria. A Caracas il 18 luglio 1976 non gli lasciava scampo anche perché ormai faticava troppo a rientrare nei limiti della minima divisione. Il suo campo rimase il vecchio continente e, smaltita l’ultima delusione, ricominciava a macinare avversari che lo volevano spodestare. Al Palalido di Milano lo spagnolo Josè Cantero resisteva cinque riprese, mentre quattro mesi dopo al Palazzo dello Sport di Vigevano il francese Nessim Zebelini gli veniva tolto dalle mani nel corso della nona ripresa. Instancabile Udella, meno di due mesi più tardi concedeva un’opportunità al conterraneo Emilio Pireddu. A Cagliari per la sesta volta manteneva la corona europea al termine di un combattimento monotono, privo di carica agonistica, anche perché i due si conoscevano molto bene ed erano anche amici. Nel 1978 batteva due spagnoli: Mariano Garcia veniva messo fuori combattimento in sei riprese a Cagliari mentre Manuel Carrasco era dominato in quindici round a Bellaria. Aveva trentadue anni Franco Udella quando si recava a Londra sapendo di dover depositare ai piedi dell’astro nascente della categoria, il maltese Charlie Magri, il titolo che per quasi cinque anni era stato di sua proprietà. Intimamente convinto che quello di Wembley sarebbe stato l’ultimo match di una prodigiosa carriera, Udella non forzava mai il ritmo del combattimento lasciando l’iniziativa allo sfidante che solo nell’ultima ripresa dimostrava una certa superiorità. Ciononostante fu una decisione divisa a condannarlo alla sconfitta. La favola del piccolo grande uomo di Sardegna aveva così il suo epilogo.

Salvatore Fanni. La grande fucina isolana dei pesi mosca ha regalato al pugilato italiano un altro protagonista, il decimo in ordine di tempo. Poco adatto alle corte riprese dilettantistiche trovava nel professionismo, terreno ideale per esprimere appieno le sue qualità di fighter potente e resistente alla fatica, le condizioni ideali per esprimersi al meglio. Meriti che da dilettante non aveva lasciato intravedere per la brevità dei confronti. Ben guidato il mosca cagliaritano si affacciava all’Europa senza passare per il titolo italiano. Sedici vittorie consecutive lo qualificarono con l’inglese Pat Clinton a battersi per il titolo europeo lasciato vacante dal turco-danese Eyup Can. A Quartu Sant’Elena l’inesperienza lo tradiva e perdeva di misura dopo aver inginocchiato l’avversario al decimo round. L’appuntamento con il titolo era solo rimandato all’anno successivo quando a Cagliari stroncava Joe Kelly in due riprese per la corona che Pat Clinton aveva lasciato vacante. Da questo momento il suo cammino si svolgerà solamente ad alto livello. Cambiava manager e alla prima difesa del titolo continentale con il britannico Danny Porter per poco non veniva spodestato. Una provvidenziale ferita fermava l’avversario al nono round. Ritrovava fiducia nei suoi mezzi respingendo di misura, ad Omegna, un altro suddito di sua maestà britannica James Drummond. A Sarno nel febbraio 1992 concedeva la rivincita a Danny Porter che lo aveva fatto tanto soffrire l’anno prima a Marina di Sorso. L’inglese era convinto di portare nella sua isola il titolo ma di fronte aveva  un altro Fanni. Il combattimento fu aspro con scambi serrati e maligni, ma sempre sul filo dell’equilibrio. Il pareggio gli permise di mantenere la corona che rimise in palio con il conterraneo Michele Poddighe a Cagliari due mesi dopo. I due rivali disputarono un combattimento altalenante con vantaggio iniziale del più alto sfidante che sapeva imporre il suo allungo superiore. Recuperava terreno Fanni accorciando le distanze; i colpi duri da una parte e dall’altra si susseguirono fino alla fine e con verdetto di misura il detentore si assicurava la vittoria. Il sesto confronto continentale gli era fatale. A Glasgow lo scozzese Robbie Regan gli toglieva il titolo europeo con verdetto casalingo che avrebbe potuto essere di parità. Dopo dieci mesi d’inattività Fanni aveva l’opportunità di riprendersi la corona lasciata vacante da Robbie Regan. Fu nominato sfidante con il campano Luigi Camputaro ed il match, disputatosi ad Oristano, venne vinto dall’avversario dopo scambi violentissimi senza un attimo di tregua. Un richiamo ufficiale nel decimo round gli fu fatale nel computo dei punti sui cartellini dei giudici. Tra i due baldi avversari non era finita. Nel balletto di conquiste e abbandoni del titolo era successo che il pugile di Gioia Sannitica perdesse il primato con il solito Regan e che questi lo abbandonasse di nuovo per tentare il titolo mondiale. Camputaro e Fanni furono prescelti dall’EBU a contendersi la corona ed a Guspini il 10 giugno 1995, dopo un intenso combattimento a corta distanza, i due rivali si ritrovarono alla pari ed un nuovo confronto si rese necessario. A settembre dello stesso anno, questa volta a Gioia Sannitica in casa del suo competitore, il titolo doveva essere assegnato e dopo il solito intenso ed equilibrato confronto, fotocopia di quelli precedenti, i giudici favorirono il pugile campano, residente nel Connecticut, con un verdetto di strettissima misura. La carriera del forte pugile cagliaritano continuava con meno intensità ma ad altissimo livello. Il 1° giugno 1996 si lasciava scappare l’occasione di riprendersi la corona di campione d’Europa contro un avversario non irresistibile. Al danese Jesper Jensen, un guardia destra sempre sulla difensiva, sono bastati pochi colpi d’incontro per superare un Fanni svogliato ed abulico. Passava il momento critico rivolgendo per la prima volta e quasi in chiusura di carriera le sue attenzioni al campionato italiano della categoria. Ad Aulla, nell’agosto di quello stesso anno, superava il tradizionale avversario Michele Poddighe. La conquista del titolo italiano, che avrebbe abbandonato quasi subito, gli aprirono le porte ad altri  confronti di alto livello. Tonino Puddu, promoter isolano riusciva ad organizzare in Sardegna il primo titolo mondiale con un protagonista del luogo. L’argentino Carlos Gabriel Salazar, quasi coetaneo ma molto più esperto respinse l’attacco dell’italiano, dopo l’ennesimo confronto equilibrato; un’ammonizione per testa bassa ha avuto un grosso peso sul verdetto. Non finiva così la corsa verso il mondiale. Fanni ritentava  l’anno dopo, sempre con la benemerita organizzazione di Tonino Puddu a Cagliari si appellava all’ente più abbordabile in campo mondiale, la WBU ma anche questa volta falliva l’impresa contro Ruben Sanchez Leon. Non pago il piccolo, indomito cagliaritano, scendeva nella categoria inferiore sfidando Jorge Arce per il mondiale WBO. A Sassari il messicano, più giovane di quattordici anni, aveva la meglio per ferita in sei riprese. Gli ultimi fuochi di un’intensa e lunga carriera si spensero nella capitale lombarda per un nuovo ma impossibile assalto alla corona europea. Al Palalido di Milano il russo Alex Mahmutov frustrava le residue ambizioni del tamburino sardo al quale, sulla soglia di trentacinque anni, è venuta a mancare la continuità e determinazione dei giorni migliori. Il solo coraggio non é bastato per superare il più fresco campione europeo. Termina in questo modo una carriera che lo ha visto protagonista per una decina di anni. Un percorso sempre in salita con la preoccupazione di trovare un lavoro stabile per tirare avanti la famiglia ed il rammarico di aver ottenuto solamente promesse. Dopo quasi cinque anni d’inattività effettuava un nostalgico rientro superando per squalifica quel Ciaramitaro bestia nera di tutti i pesi mosca del tempo. Ma a trentanove anni le prospettive rimasero tali, date le condizioni di precarietà in cui versava la categoria.

Andrea Sarritzu. Rischia di essere non solo l’ultimo esponente sardo dei pesi mosca ma anche l’ultimo italiano esponente di una categoria in via di estinzione. Una buona stagione tra i dilettanti ne facevano un predestinato a traguardi di eccellenza anche tra i professionisti .Nel 1994 raggiungeva la finale ai campionati mondiali juniores a Istanbul battuto in finale dal finlandese Trunen. Dopo molte affermazioni con la maglia azzurra conquistava  il campionato  italiano a Roma nel 1996 tra i dilettanti  mini-mosca, prima del grande salto a ventidue anni, tra i professionisti. Da subito vincente, subiva una sola sconfitta nei suoi primi diciotto combattimenti ad opera di Giuseppe Laganà sul quale vantava due affermazioni in precedenza. Con molta presunzione Sarritzu si disinteressava del titolo italiano e compiva un percorso sbagliato secondo il mio parere, all’incontrario. E’ come se un muratore  cominciasse a costruirsi la casa cominciando dal tetto. A Quartu Sant’Elena il 14 dicembre 2002 veniva respinto da Omar Andres Narvaez per il titolo WBO dei pesi mosca. L’esperienza che gli mancava è stata determinante. Ritentava con lo stesso avversario l’anno successivo ma non andava oltre un pareggio che lasciava il titolo all’argentino. Non gli restava che ricominciare da capo una risalita che lo avrebbe portato a sfidare lo spagnolo Ivan Pozo sul quadrato di Vigo, in terra iberica. Il fortissimo campione d’Europa, nel suo periodo migliore, lo batteva agevolmente. Facile in casi simili lasciarsi prendere dallo scoramento. Fallito il mondiale e successivamente l’europeo, non rimaneva che appellarsi al titolo italiano snobbato in precedenza ma non c’erano più avversari. Bisogna dare atto al cagliaritano di aver saputo afferrare al volo l’opportunità che gli veniva proposta al momento una nuova sfida con Ivan Pozo a Milano titolo in palio .In una torrida serata estiva al Velodromo Vigorelli, luogo storico per il pugilato milanese, riaperto dopo tanti anni, Sarritzu compiva un’impresa esaltante stroncando all’ultimo round le residue speranze del campione di mantenere la corona, dopo essere stato duramente dominato nei round precedenti. Diventato un beniamino degli sportivi milanesi, nel capoluogo lombarda respingeva l’assalto del francese Christophe Rodrigues e al Forum di Assago, periferia della città, il franco-algerino Lahcene Zemmouri con un imperioso KO al settimo round. Tra questi due combattimenti trovava il modo di salvarsi con un pareggio contro il fortissimo Bernard Inom ad Ajaccio in Corsica. Sarà proprio il francese a togliergli dal capo la corona europea. Inom, con ambizioni mondiali lasciava il titolo che prontamente Sarritzu riconquistava a Maracalagonis a spese di quel Rodrigues in precedenza battuto. Respinto il modesto Bonnell a Selargius nel maggio del 2010, Sarritzu, ultimo peso mosca italiano in attività, abbandonava il titolo europeo perché a Cagliari gli venne offerta la possibilità di conquistare un titolo mondiale. Il sudafricano Moruti Mthalane titolare IBF si dimostrava troppo forte per il cagliaritano che pur battendosi con onore dovette soccombere prima del limite. Tentava in seguito di ritornare sul trono continentale ma una prima volta  Silvio Olteanu lo respingeva ai punti, quindi, a titolo vacante, Valery Yanchy lo costringeva al pareggio. Fu necessario un nuovo combattimento tra i due che si tenne a Mazzo di Rho, periferia milanese. Fu un ulteriore match gagliardo ed equilibrato ma la giuria preferiva l’avversario. Tentava poi di impossessarsi del titolo dell’Unione europea ma il detentore francese Vincent Legrand s’imponeva in sei tornate. Chiudeva la carriera nel 2017 con un successo ai punti.

Luigi Camputaro. Fratello di Giovanni, che aveva conquistato il titolo italiano prima di lui, Luigi Camputaro dopo aver iniziato la boxe alla Pugilistica Matesina si trasferiva negli Stati Uniti d’America e passava al professionismo. In possesso di un pugilato di chiaro stampo “yankee”, possedeva continuità d’azione e potenza che rendevano spettacolare la sua boxe. Già campione del Connecticut, in Italia puntava al titolo forte delle sue quindici vittorie su sedici match disputati. A Lumezzane il 28novembre 1986 batteva chiaramente il pugile di casa Roberto Cirelli e conquista il vacante titolo italiano dei pesi mosca. Tornava momentaneamente negli USA e abbandonava  il titolo italiano cercando strade più remunerative. A Denver nel giugno 1989 combatteva per il titolo USBA dei pesi supermosca, per il quale veniva  respinto da Ray Medel, uomo di alta  classifica mondiale. Vincenzo Belcastro gli offriva la possibilità di un combattimento valido per il titolo europeo dei gallo ed era una nuova sconfitta. Le sue incursioni nella categoria superiore non avevano fortuna: battuto dal grande Johnny Tapia a Las Vegas per il titolo USBA due anni dopo veniva superato da Cecilio Espino per il campionato NABF dei supermosca. Dopo aver bussato invano alle porte della categoria superiore ritornava in Italia rientrando tra i pesi mosca. Nel frattempo lo scozzese Robbie Regan aveva abbandonato il titolo continentale e ad Oristano il 22 settembre 1993 la corona vacante se la giocarono il campano-americano ed il sardo Salvatore Fanni. Questi sbagliava nell’accettare la lotta in stile americano di Camputaro e per un paio di punti perdeva il match. Per la storia sarà l’ottavo pugile italiano sul trono europeo. Ciò gli facilitava un match per il mondiale targato WBO ma a Sun City in Sud Africa il locale Jacob Matlala risultava troppo forte per il nostro, sempre in lotta con la bilancia per rientrare nei limiti della categoria. Il 1994 lo vede respingere a fatica l’inglese Mickey Cantwell alla York Hall di Londra. Una affezione polmonare gli aveva più volte fatto interrompere la preparazione con conseguente difficoltà nel raggiungere il peso stabilito. Tre mesi dopo si riabilitava agli occhi di tutti respingendo con autorità Darren Fifield a Bristol, sotto la guida di un nuovo maestro,Tony Ayala, impegnato a  disciplinarne l’azione troppo spesso inquinata dall’istinto guerresco del campano. Sempre da quelle parti, ma in Scozia, Luigi Camputaro doveva sopportare uno scandaloso verdetto di sconfitta. A Cardiff, l’idolo locale Robbie Regan usufruiva dei benefici di una giuria di parte malgrado un netto svantaggio alla fine del confronto. Lo scozzese però veniva privato del titolo per non averlo difeso nei termini previsti e se lo  contesero, di nuovo, Camputaro e Fanni. A Guspini in Sardegna nel giugno del 1995 si registrava un  nulla di fatto  con tre fasi ben distinte. Vantaggio di Camputaro nella prima parte del match, equilibrio nella fase centrale e ritorno di Fanni nella terza fase. Pari giusto e nuovo confronto. Finalmente sul ring di casa sua, per la prima volta, il casertano al termine di un match intenso ,molto duro ed equilibrato, riconquistava il titolo europeo. All’inizio dell’anno dopo, con la prospettiva di un combattimento per il titolo mondiale, in seguito svanita, abbandonava la corona continentale. Cambiato nuovamente manager e maestro, il pugile di Gioia Sannitica, otteneva un’ultima possibilità di riconquistare la corona che era transitata nel frattempo nelle mani di Jesper Jensen. Questi a Nestved, in Danimarca, faceva valere il suo pugilato più tecnico e sfuggente. Il mini–guerriero casertano, sfiduciato e con tredici anni di dure battaglia sulle spalle, chiudeva l’avventura pugilistica dopo la sconfitta prima del limite subita da Kennedy McKinney negli Stati Uniti d’America. Una carriera di tutto rispetto la sua, con una boxe dispendiosa, troppo soggetta all’istinto piuttosto che al ragionamento.

Aristide Pozzali. Ad una grande carriera dilettantistica si sperava in un’altrettanto grande stagione professionistica, ma una non corretta condotta di vita ne fece naufragare le aspettative sul più bello. Campione d’Italia nel 1951 a Milano, nello stesso anno e sullo stesso ring si laureava campione europeo della categoria. Fu un anno d’oro il 1951: ad Alessandria d’Egitto si classificava al primo posto anche ai Giochi del Mediterraneo. L’anno successivo partecipava alle Olimpiadi di Helsinki dove veniva superato dal bulgaro Anatoly Bulakov. Nel 1953 ai mondiali militari di Monaco di Baviera veniva eliminato dal grande Alphonse Halimi che sarebbe diventato campione del mondo tra i pesi gallo alcuni anni dopo. Quindici confronti con la maglia azzurra (solo tre persi) ne consacrarono il grande valore. Pugile istintivo, tecnico con pugno, suscitava grandi speranze al suo apparire tra i prize-fighter. Al suo ventesimo combattimento con una sola sconfitta per squalifica, prontamente vendicata, si aggiudicava il titolo italiano con estrema facilità sul romano Franco Lombardozzi, costretto al ritiro sotto i pesanti colpi del mancino cremonese. La corsa vittoriosa continuava fino a portarlo alla soglia del titolo europeo. Al Palazzo dello Sport di Milano gremito in ogni ordine di posti, Pozzali aveva un grande seguito nella capitale lombarda, la grande illusione durava quattro riprese. Dopo alterni atterramenti lo spagnolo Young Martin mise a segno il colpo definitivo. Lo spagnolo, rispetto al nostro campione aveva in più la resistenza ai colpi duri. La mascella del cremonese si rivelava più vulnerabile. La delusione tra il pubblico, ed io ero tra i presenti, si sentiva nell’aria e anche il pugile ne risentì enormemente. Riprese a Casablanca con un verdetto casalingo che dava un immeritato pareggio all’uomo di casa Charlie Bohbot.  Perse in seguito un match a Caracas in una virtuale semifinale al titolo mondiale contro Ramon Arias, che sarebbe stato un grande sfidante nel confronto perso con l’imbattibile Pasqual Perez. Senza più stimoli disputava ancora pochi combattimenti. Ricordo nel suo penultimo match il bellissimo duello vinto contro l’emergente Salvatore Burruni, al quale inflisse una delle poche sconfitte in carriera. Dopo uno svogliato pareggio contro il modesto Stefano Urbani ed in procinto di difendere la corona di campione d’Italia improvvisamente chiudeva la sua avventura pugilistica. Aveva capito che era giunto il momento di dire basta. Con il pugilato non si era arricchito; aveva moglie e due figli. Bussò a tante porte per ottenere un lavoro e visse facendo il camionista. Amaramente diceva «quando sei in auge tutti ti cercano, appena  smetti più nessuno si ricorda di te». Muore a Cremona nel gennaio 1979 per un male incurabile. Aveva solo quarantasette anni.

Nazzareno Giannelli. Rientra tra i grandi della categoria  malgrado avesse un grosso handicap nel temperamento tiepido, che a volte ne vanificava l’eccellente tecnica pugilistica, espressa meglio in palestra. Padovano trapiantato a Milano, crebbe pugilisticamente nella A.T.M. la squadra dell’azienda di trasporto pubblico dove lavorava. Professionista esemplare in dodici anni disputava 58 combattimenti con il titolo italiano conquistato due volte ed una volta con il titolo europeo, secondo italiano dopo Urbinati. Come detto, la sua eccellete tecnica non tardava a portarlo nelle prime posizioni del ranking nazionale con una lunga serie di vittorie intervallate da sconfitte imputabili al suo scarso mordente, specie di fronte a picchiatori riconosciuti. Come spesso accade la conquista di un titolo trasforma e accresce la fiducia nei propri mezzi. Così Nazareno trovava la forza di superare un ottimo Otello Belardinelli a Vigevano nel settembre 1950, per un solo punto di vantaggio. Respingeva con un pareggio lo stesso avversario a Milano nel gennaio dell’anno dopo. La parità con il forte Charlie Bohbot a Casablanca e le vittorie su Henry Carpenter a Londra e su Bernard Celestini a Ginevra, gli davano quella consapevolezza nei propri mezzi che gli mancava. Più tardi superava Ennio Aroldi in un combattimento dove la sua scherma ed il sinistro portato come un fioretto gli stavano concedendo una comoda vittoria. Ma all’undicesima ripresa il maligno destro del cremonese provocava danni tangibili ed il campione doveva aggrapparsi al mestiere per condurre in porto il match valido per il titolo. Perdeva la corona subito dopo ad Ancona per mani dello storico avversario Otello Belardinelli con un verdetto unanime ma accolto con qualche dissenso. Ma la saga dei due strenui competitori non si  era esaurita. A Lodi il quinto match tra i due (il primo disputato nel 1947 non era valido per nessuna corona) lo riportava in cima ai valori italiani dopo un match ancora equilibrato, come tutti gli altri. Malgrado la sconfitta subita dal sudafricano Jake Tuli a Londra, Nazzareno entra in classifica europea e ottiene di essere sfidante al titolo europeo detenuto da Lou Skena. Al Palais des Sport di Ginevra ancora una volta vniva tradito dal temperamento. Dimostrava di essere superiore al francese per tecnica e velocità d’esecuzione ma una tattica troppo prudente lo condannava alla sconfitta. Senza avversari in Italia, respinto il laziale Lombardozzi dal giuoco troppo elementare per impensierire una vecchia volpe come lui, Milano gli offriva la grande occasione della vita. In un  combattimento cancellava in un colpo solo i tentennamenti e le pastoie di un temperamento tiepido che lo ha penalizzato molto in carriera. Al termine di un combattimento vibrante e molto equilibrato l’arbitro francese Scheman gli alzava il braccio della vittoria quinto italiano a cingere la corona europea. Il suo avversario Terry Allen, che fu anche campione del mondo, dimostrava durante il match di non essere a fine carriera e tentava tutto il possibile per mantenere il titolo, ma un Giannelli super ha saputo vanificare i suoi sforzi. I miracoli però non avvengono due volte. A Londra superava per ferita Jake Tuli e successivamente il gallese Dai Dower, rude minatore ventiduenne, lo spodestava. Giannelli non aveva saputo neutralizzare il sinistro lungo ed affilato dello sfidante, sorretto da una inesauribile azione d’attacco. Una trasferta a Manila contro l’emergente Little Cezar e alcuni incontri minori chiudevano la carriera di un campione. Si dedicava quindi all’insegnamento  aprendo una sua palestra che in seguito convertiva a sala di cultura fisica per privati. In un nefasto giorno di marzo del 1998 il destino lo coglieva sul pullman che lo riportava a Milano dopo un convegno a Roma con gli amici dell’Associazione Autonoma Pugili. Subito soccorso e accompagnato all’Ospedale di Firenze, Nazzareno Giannelli cessava di vivere.

10° Otello Belardinelli. Si disse che fosse stato il padre a spingerlo in palestra  affinché  facesse il pugile. Entrava così alla gloriosa Cristoforo Colombo dove ebbe modo di farsi notare. Non fu molto fortunato in quel periodo tra i dilettanti perché per ben due volte gli venne negata la conquista del titolo italiano, prima da Costante Paesani e poi da Guido Nardecchia. Passava tra i professionisti con la fama di eterno aspirante al titolo della categoria quando a Terni batteva il suo antico rivale tra i dilettanti e finalmente raggiungeva il sogno di una vita. Prima di questo combattimento era stato respinto da Enrico Urbinati, da Nino Morabito e da Gavino Matta in una frenetica corsa verso il primato. Era un buon tecnico Belardinelli e tra i professionisti era considerato pugile di poco sotto i migliori. Diede buona prova di sé anche all’estero contro uomini  della levatura di Jean Sneyers, il belga campione d’Europa in tre categorie dai mosca ai piuma, Rinty Monaghan, campione d’Europa e del mondo e Joe Murphy, pugile di assoluto valore. Otello prendeva coscienza del suo valore grazie al predetto confronto con Guido Nardecchia. In tale modo si appropriava anche del titolo italiano (allora valeva molto) che utilizzava al meglio. Si era Terni il 24 gennaio 1949, nella riunione dei due campionati in un  “derby” capitolino. Lo sfidante Belardinelli raccoglieva i frutti di un pressante lavoro al bersaglio grosso che tolse lucidità e freschezza al più “anziano” dei due contendenti. Dieci mesi più tardi allo Sferisterio di Roma respingeva facilmente l’attacco del concittadino Giovanni Fattori. Questi, nervoso e scalpitante, svolgeva la principale mole di lavoro mentre Belardinelli faceva valere una maggiore potenza, affiancata da precisione tecnica superiore. Dopo questo combattimento iniziava il dualismo con Nazzareno Giannelli, con il quale ingaggiava ben quattro combattimenti per il titolo con alterni risultati. Nel primo, disputato a Vigevano, perdeva la leadership della categoria per un punto dovuto ad un’ammonizione subita proprio nella dodicesima ripresa. Perso il primato a testa alta, Otello ambiva ad una pronta rivincita che Giannelli gli concedeva quattro mesi dopo a Milano. I due non furono all’altezza del loro valore e dopo un match deludente, che si vivacizzava solo nelle ultime riprese, il pareggio lasciava le cose come stavano. Nel loro terzo confronto Otello Belardineli riusciva nell’intento di riprendersi il titolo. Ad Ancona Giannelli veniva battuto con un verdetto unanime dopo un confronto vibrante con il pubblico in piedi a seguire le ultime decisive riprese. La riconquista della supremazia gli fruttava un combattimento valido per il campionato europeo della categoria. Il campione in carica Teddy Gardner conduceva il match in vantaggio con l’uso di un sinistro da manuale, ma se la vedeva brutta nell’undicesimo round quando un potente gancio mancino di Otello lo metteva in grave difficoltà. Dopo la bella prova disputata  a West Hartlepool, in casa del campione, a Lodi lo aspettava nuovamente Nazzareno Giannelli che al termine del solito equilibrato confronto gli sottraeva definitivamente il titolo italiano. Nel tornare a Roma un incidente di macchina lo toglieva momentaneamente dal pugilato attivo. Tre anni dopo aveva un ritorno di fiamma e disputava un paio di combattimenti vittoriosi. Aveva trentacinque anni e definitivamente scendeva dal ring.

Pietro Anselmi

 

 

 

 

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