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Il 10 marzo 1936 il suo cuore cessò di batteredi Alessandro Bisozzi Egidio Roversi era nato a Civitavecchia nel 1907. Amico e quasi coetaneo del suo futuro collega Alberto Guainella, con lui cominciò a frequentare la palestra della Società Sportiva "Giovinezza" fin da bambino. Era bravo Egidio, un talento naturale a cui la pratica del pugilato forgiò presto un fisico da peso medio massiccio e potente. La sua carriera comincia nella palestra aperta a Civitavecchia da Romolo Parboni, poi ad appena sedici anni lascia il noviziato per esordire nei dilettanti. Non vince moltissimo e non perché non sia forte, tutt'altro, ma perché difetta di una qualità fondamentale per un pugile, la versatilità. Roversi fa sempre fatica ad assimilare il gioco dell'avversario, lui carica a testa bassa e avanza come un carro armato e spesso questa condotta lo espone a rischi letali. La forza bruta, in uno sport che si gioca sulla punta dei piedi, non è la sola dote indispensabile. Nel 1926 Egidio decide di lasciare l'Italia e cercare fortuna in America, così come aveva fatto, poco prima, il suo compaesano Carlo Saraudi. Quando arriva a Philadelphia non ha che diciannove anni e pochi spiccioli in tasca e l'unica prospettiva di ingaggi, per uno sconosciuto pugile proveniente dall'Europa come lui, era quella di farsi massacrare come sparring partner nelle palestre. Era comunque un'occasione per mettersi in mostra e i risultati arrivano presto, perché quando gli offrono delle opportunità, Egidio non se le lascia sfuggire. Il ragazzetto, che nel frattempo ha adottato il nomignolo americano di Tony Gildo ed è passato professionista, conquista in breve le simpatie del pubblico; ha un modo tutto suo di combattere: irruente e ostinato non si tira mai indietro davanti a nessuno. La sua tecnica migliora sensibilmente e gli avversari cominciano, così, a farsi importanti. Jimmy McAllister, challenger al titolo americano dei pesi medi, dopo averlo battuto una prima volta gli concede la rivincita, al termine della quale è sonoramente battuto ai punti. Il 1927 è l'anno più ricco di impegni per Roversi che ha la possibilità di mettere in luce le sue formidabili qualità di irriducibile picchiatore, oltre a quella di incassatore a prova di bomba. Sono anni difficili e duri per il giovane, anni di sacrifici e incertezze, vissuti tra la preoccupazione costante di mantenere sempre il massimo dell'efficienza per uno sport che richiedeva di salire sul ring con una frequenza anche di una volta al mese. Conquistare un incontro sottoclou di un evento più importante era un privilegio a cui si accedeva solo dopo immani sacrifici in palestra e dopo aver subìto le più dure prove contro sparring partner che sembrava venissero pagati apposta non tanto per allenarti, quanto per spedirti all'ospedale. Una carriera decorosa e attivissima per lui, tra pesanti sconfitte e clamorose affermazioni, come quelle su Marty Summers (vincitore del futuro campione del mondo Mickey Walker) e su Tiger Johnson, o quella strepitosa su Carmen Spagnolia, che gli fece meritare il passaporto per salire sul ring con Joe Schlocker, l'uomo che aveva battuto il campione del mondo Salvatore Lazzara, in arte Joe Dundee. È l'occasione della sua vita, Egidio si trova a due passi dal vertice e combatte il più bel match della sua carriera, una lotta all'ultimo sangue che si chiude con uno scarto minimo di punti a favore del pugile californiano. Quattro giorni dopo, l'ultimo incontro americano per Roversi che spedisce ko il nero Frankie Luther alla quarta ripresa. (Egio Roversi fotografato negli Stati Uniti quando combatteva con il nome di Tony Gildo) Il civitavecchiese era esausto, negli ultimi tre mesi aveva affrontato sette combattimenti durissimi, mentre i suoi incassi rimanevano, in buona sostanza, quelli di un modesto galoppino di terza serie. Nell'aprile del 1929, raccoglie le sue poche cose, si compra un biglietto di terza classe sul piroscafo Conte Biancamano e torna in Italia. È ancora giovane e vorrebbe ricominciare a vincere, ma per uno strano caso riesce a farlo solo combattendo in casa, davanti ai suoi concittadini. Gli organizzatori cominciano a temere che il forte peso medio sia giunto al termine della carriera, ravvisando in quella debolezza gli effetti dei gravosi e trascorsi impegni americani. Insomma, Tony Gildo sarebbe stato spremuto fino all'osso, secondo alcuni, mentre per altri la verità era più semplice ed evidente. Roversi lavorava come facchino nel porto di Civitavecchia e questa attività, all'epoca molto gravosa a causa dei pesanti carichi da trasportare (un fardello a cui lui non si sottraeva mai per rispetto dei colleghi), influiva negativamente sulla tenuta fisica di un atleta che doveva anche allenarsi in maniera costante e piuttosto intensa. Dopo il 1933, gli ingaggi si assottigliano al lumicino; Egidio però continua ad allenarsi, trovando anche il modo di dare lezioni di boxe ai giovani allievi nella palestra dell' "Estudiantes Sporting Club". L'11 novembre 1935, nella spaziosa sala del Dopolavoro portuale di Civitavecchia, Roversi affronta e batte nettamente il rumeno Nicolas Jorgulescu al termine di dieci appassionanti riprese. Non può sapere che sarà il suo ultimo combattimento. Alcuni mesi dopo, dalle pagine di un giornale, egli lancia pubblicamente una sfida a tutti i pari peso, ed in particolare ad Amedeo Deyana e Alfredo Oldoini, nel tentativo di risollevare intorno a sé quell'interesse ormai sopito da tempo. Alberto Guainella vorrebbe organizzare con lui un incontro, ma il destino non permetterà ai due amici di scontrarsi sul ring. La mattina del 10 marzo 1936, Egidio Roversi si trova al lavoro come sempre. C'è da scaricare del carbone dalla motonave greca Mimosa. È un lavoro pesantissimo perché il combustibile arriva sfuso e per raggiungerlo bisogna calarsi direttamente nella stiva attraverso una stretta gradinata saldata sui due lati delle fiancate. Man mano che la stiva veniva svuotata, la scalinata si scopriva fino a raggiungere il fondo. Si scende sul carbone lungo un lato e si risale dall'altro, per non ostacolarsi. Ogni facchino si carica una grossa cesta di vimini sagomata, la "gerla", che viene velocemente riempita a palate dai colleghi più anziani incaricati poi di sollevarla e sistemarla tra il collo e la schiena del compagno, allacciata al "ciuffo", una specie di grosso telo che veniva indossato come un cappuccio e che distribuiva parte del peso sulla fronte. Il lavoratore poi agguantava il cesto dal manico con entrambe le mani, da sopra le spalle, tirandolo davanti a sé, e in questo modo risaliva lungo la scalinata. Era da poco passato mezzogiorno, Roversi arriva di nuovo "da basso", pronto per l'ennesimo viaggio. Gli stanno caricando un'altra cesta, quando all'improvviso, senza un lamento, stramazza sulla catasta del carbone sotto gli occhi dei compagni. Sembra uno svenimento, ne accadono spesso lavorando in quelle condizioni, ma qualcuno si accorge subito che quel corpo tutto coperto di fuliggine scura non dà più segni di vita. Roversi viene immediatamente trasferito a terra e adagiato su un carretto trainato da due muli. L'ospedale è appena fuori del porto; la corsa è breve, disperata e purtroppo inutile. Il giovane cuore dell'uomo che lottò contro i migliori pugili americani del tempo aveva smesso di battere nella sudicia e fredda stiva di un bastimento greco, sopra tonnellate di carbone. Ad appena ventinove anni, Egidio Roversi muore per arresto cardiocircolatorio. Alessandro Bisozzi |
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