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Nel 1952, sul ring di Washington, D.C., USAdi Alessandro Bisozzi Jimmy Cooper era un mestierante espertissimo, padrone nell'arte del menar le mani come pochi altri. Aveva avuto decine di buone occasioni per mettersi in luce, ma la sua carriera era altalenante, lunatica come il suo carattere. Se fosse stato un calciatore sarebbe stato un buon mediano, se un ciclista un buon gregario, ma era un pugile e nella boxe non hai ruoli o classifiche. Vinci o perdi, non puoi nasconderti dietro il mucchio. Ecco, Cooper faceva esattamente questo, a volte vinceva, a volte perdeva, ma sempre ad altissimi livelli, senza mai scendere nel limbo dei perfetti sconosciuti. È il destino di migliaia di pugili che si massacrarono in estenuanti incontri senza mai raggiungere i grandi successi, mai un titolo, sempre all'ombra dei predestinati, dei primi della classe, dei campioni. Nicola Funari era di Civitavecchia, appena arrivato dall'Italia in cerca di soldi e di fama. Era bravo Nicola, un tecnico di alta classe, un peso piuma alla Tamagnini, suo compaesano, veloce e astuto. Anche lui non aveva ancora vinto niente, solo diciotto incontri su trenta, ma nessun titolo. Nel 1949 aveva battuto il grande Gino Bondavalli, ormai alla fine della carriera, e pochi mesi prima Raymond Grassi, il futuro campione di Francia dei pesi piuma. Era assolutamente un bravissimo pugile, ma la strada che stava percorrendo non gli riservò mai alcuna gloria; tante vittorie, ma nessun trofeo incassato. Anche lui un valido subalterno, che saliva e scendeva i ring con la stessa fredda imperturbabilità con cui un capotreno salta sopra un vagone in partenza alla stazione. Il 28 ottobre 1952, Jimmy Cooper e Nicola Funari si incontrano all'Uline Arena di Washington, un gigantesco edificio a forma di hangar, capace di oltre ottomila posti. Sono di fronte due abili professionisti. L'americano è leggermente più alto e di oltre due chili più pesante, inoltre gode di una solida esperienza avendo disputato quasi il triplo degli incontri dell'altro. Ad accompagnare il civitavecchiese sul ring c'era il suo amico e concittadino Francesco Fratalia, anche lui bravo pugile professionista, ormai stabilitosi negli Stati Uniti da qualche anno. La sfida è diretta da un arbitro d'eccezione, il neocampione del mondo dei pesi massimi Rocky Marciano che spesso si dilettava a salire sul ring senza guantoni ed in maniche di camicia. Quasi tutte le dieci riprese previste sono a totale appannaggio dell'italiano, il quale sfodera una tattica decisamente molto aggressiva ed una superiorità schiacciante che appassiona tutto il pubblico presente. Al decimo round, forse a causa della stanchezza, Funari rallenta il ritmo, riuscendo comunque a controllare un avversario molto provato dai numerosi colpi subiti. All'improvviso, il colpo di scena: centrato da un saettante gancio destro di Cooper, che lo raggiunge alla mandibola, il civitavecchiese finisce al tappeto. Sembra un k.o. in piena regola, ma il pugno è stato in parte schivato e Funari, ormai quasi alla fine del match, si prende tutto il tempo concesso dalla conta di Marciano. Quando al nono secondo scatta in piedi, Cooper, sicuro di finirlo, gli si avventa addosso come una belva. Il risultato fino ad allora era scontato e niente riuscì a strappare la vittoria dalle mani dell'italiano. Per la cronaca, i due giudici a bordo ring assegnarono la vittoria a Funari, mentre Marciano si pronunciò a favore dell'americano. Il commissario della federazione pugilistica di Washington, Henry Miller, impressionato dalle grandi qualità stilistiche del pugile italiano, lo definì come: "il miglior prodotto venuto dall'Europa dopo Marcel Cerdan". Alessandro Bisozzi |
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