Esclusiva classificazione di Pietro AnselmiGrazie all’appassionata ricerca dell’amico Pietro Anselmi l’ambizione annoverata da sportenote di pubblicare la catalogazione dei primi dieci ex pugili professionisti italiani di ciascuna categoria di peso continua con la divisione dei pesi gallo. La sua scrupolosa investigazione tra gli innumerevoli italiani che hanno riempito la categoria dei pesi gallo, unitamente alla sua abilità narrativa, diventa conoscenza della parte migliore della divisione di peso trattata in questa puntata. Ecco la tredicesima "sfornata". Con un click sul nome di ciascun pugile si accede al record. Buona lettura. §§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§ Per vent’anni la categoria fu esclusivo appannaggio di Gran Bretagna e Francia, ma dall’avvento di Domenico Bernasconi in poi le cose sono cambiate. L’Italia attraverso i suoi campioni prese decisamente il sopravvento al punto di riuscire a raggiungere gli inglesi in testa alla graduatoria europea. I "Bantam", come viene denominata la categoria dei pesi gallo, ci ha dato grandi soddisfazioni anche se il solo Mario D’Agata è riuscito a conquistare il titolo mondiale assoluto. Da questa classifica mancano campioni che hanno vinto il titolo in più categorie come Gino Bondavalli e Tommaso Galli che ho collocato tra i pesi piuma, Salvatore Burruni che sarà tra i pesi mosca e Vincenzo Belcastro tra i supergallo. Al primo posto pongo Mario D'Agata. Sordomuto dalla nascita Mario D’Agata trovava nel pugilato quelle soddisfazioni che la vita fino a quel momento gli aveva negato. Nel periodo di ricovero all’Istituto per sordomuti “Tommaso Pendola” nella sua città imparava il mestiere di intagliatore di legno. A diciannove anni scopriva la boxe e vi si dedicò con passione e tenacia. Da dilettante, la corta distanza non gli permetteva di esprimere tutto il suo potenziale, basato sulla resistenza fisica e che aveva bisogno di tempo per carburare. Decideva il passaggio al professionismo, ma dovette faticare perché in un primo momento la FPI non gli diede il nulla osta. Dopo varie insistenze e petizioni gli fu concesso il visto. La sua boxe, poco spettacolare ma estremamente redditizia, nel giro di tre anni, sostenuta da un continuo affinamento tecnico, lo portarono ad essere un pugile pericoloso per tutti. Non aveva ancora raggiunto un credito generale quando sfidava per il titolo italiano il campione sardo Gianni Zuddas, sulla cresta dell’onda, dal pugilato spumeggiante e piacevole. Nella sua città il 26 settembre 1953 la vita pugilistica del “mutino” di Arezzo cambiava decisamente ritmo. Zuddas, sottoposto alla aggressione non travolgente ma di una continuità debilitante dello sfidante, dovette rifugiarsi in reiterate scorrettezze per contenerne gli effetti devastanti. La squalifica del nono round ai danni del tamburino sardo non gli rendeva giustizia in quanto, al momento dell’interruzione “Mariolino”si trovava in netto vantaggio. Dopo un bel pareggio ottenuto a Parigi con André Valignat, a Napoli respingeva perentoriamente l’assalto di Luigi Fasulo, troppo acerbo per impensierirlo. Tre mesi dopo concedeva la rivincita a Zuddas sul neutro di Milano. Questi si era presentato in ben altre condizioni di spirito rispetto alla prima volta. Resse i dodici rounds condotti ad un ritmo infernale. Le prime otto riprese vedevano la costante ricerca della corta distanza da parte del campione in carica. Furbo, caparbio incassatore, colpitore di rara continuità era pronto ad approfittare di ogni piccolo errore dell’avversario, Mario D’Agata guidava il combattimento con autorità. Tentava il sardo una reazione d’orgoglio, i suoi destri scuotevano la mascella di D’Agata senza effetti apparenti tanto da sfiduciare lo sfidante che finiva nettamente battuto. Era giunto il momento di pensare a traguardi maggiori. A Tunisi era dato perdente con Robert Cohen ma superava Emile Chemama. Volava in Australia dove otteneva due importanti successi su Bobby Sinn e Billy Peacock. Il 1955 iniziava con un tragico incidente. Durante un diverbio con un socio di affari venne colpito da una fucilata all’addome e sembrava in un primo momento che il pugilato per lui fosse finito. La sua grande volontà e indomabile tempra gli fecero superare la disgrazia accadutagli e tornava sul ring più forte di prima. Perso il titolo italiano per non averlo potuto difendere, una decina di combattimenti vittoriosi lo portarono a Milano al cospetto di André Valignat, titolo europeo in palio in quel momento vacante. Fu un match senza storia perché il francese da subito si rifugiava in liberatorie scorrettezze, fino a provocarne la squalifica e ritiro della borsa tanto erano evidenti la loro intenzionalità. Mario D’Agata in un commovente sventolio di fazzoletti bianchi si laureava come quarto campione italiano sul trono europeo. Non difendeva il titolo perché Robert Cohen, che vantava un successo su di lui, accettava di difendere il suo titolo mondiale a Roma il 29 giugno 1926. Una imponente cornice di folla salutava la vittoria, perentoria ed entusiasmante dell’aretino che costringeva il francese al ritiro alla sesta ripresa stremato sotto il continuo martellamento al corpo del nostro. Mario D’Agata era campione del mondo, primo italiano dopo Carnera ,in un’epoca in cui il titolo era unico. Non c’erano altre sigle ed enti concorrenti. Il campione era uno solo ed indiscusso. Alphonse Halimi, altro francese d’Africa era il suo sfidante numero uno ed il loro combattimento disputatosi a Parigi l’anno successivo venne viziato da un giallo ancora oggi non risolto. Dopo tre riprese un guasto all’impianto luce fece sospendere il match che riprendeva dopo circa venti minuti. Notoriamente si sapeva che l’aretino aveva doti di fondo che crescevano con lo scorrere delle riprese. L’interruzione lo svantaggiò enormemente, il match riprese e D’Agata perse di misura. Ceduto il mondiale gli rimase la qualifica di sfidante numero uno al vacante campionato europeo. Il marchigiano Federico Scarponi venne designato come contendente. A Cagliari, nello stadio Amsicora quindicimila spettatori salutarono il ritorno dell’aretino sul più alto gradino continentale. Scarponi fece il possibile per arginare l’incalzante aggressività di Mario ma all’ottavo round un pesante destro lo metteva a sedere sul tavolato. D’Agata ritornava a Cagliari esattamente un anno dopo in difesa dell’europeo. Questa volta erano in trentamila sugli spalti dell’Amsicora a salutare la vittoria di misura di Piero Rollo che gli toglieva la corona. La sconfitta faceva prevedere un declino del forte pugile toscano. Tre battute di arresto in giro per il mondo avallavano questa impressione. Una attività ridotta caratterizzò il suo ultimo periodo sul ring. Carriera chiusa dopo dodici anni di dure battaglie con un ultimo disperato assalto al titolo italiano lasciato vacante da Rollo. A Roma il 20 luglio 1962 aveva come avversario Federico Scarponi che si prendeva la rivincita cinque anni dopo il loro primo combattimento. A trentasei anni il guerriero era stanco, aveva perso la brillantezza dei giorni migliori e decideva l’addio al ring. Poteva quindi dare sfogo alla sua vena artistica come intagliatore del legno e dedicarsi alla famiglia. Trasferitosi a Firenze, Mario D’Agata veniva a mancare il 4 4prile 2009.
Il secondo gradino lo destino a Domenico Bernasconi. Ha saputo accendere la fantasia dei tifosi per l’imprevedibilità del suo carattere e per la famosa sventola risolutrice di molti dei suoi combattimenti. Lo chiamavano “Pasqualino”, dice la leggenda, in quanto il suo colpo migliore faceva sentire le campane di Pasqua ai suoi malcapitati avversari. Già ai tempi del dilettantismo si fece notare per l’insofferenza alle regole e all’allenamento. Proverbiali furono le sue fughe notturne durante il ritiro della nazionale italiana in preparazione alle Olimpiadi di Parigi nel 1924. Campione italiano dei pesi piuma a Firenze in quello stesso anno, ai Giochi Olimpici venne battuto con un verdetto scandaloso dall’uomo di casa, Jean Ces. Ma il futuro per lui sarà tra i professionisti, dove la potenza del suo destro avrebbe avuto modo di esprimersi meglio. Al quinto combattimento risolveva la sfida contro Tullio Alessandri con un perentorio fuori combattimento che gli valeva il titolo italiano dei pesi gallo. Ormai lanciato, con le vittorie su Antoine Ascensio, Charly Sauvage, Victor Ferrand e Michel Montreuil, si guadagnava la qualifica di sfidante alla corona europea detenuta da un grandissimo campione come il belga Henry Scillie. Il richiamo del grande match convogliava al Palazzo dello Sport di Piazza d’Armi a Milano la folla delle grandi occasioni, battendo ogni record di affluenza di pubblico e incasso. L’incontro però dimostrava subito la grande differenza tecnica e d’esperienza fra i due campioni. Bernasconi disputava il suo quattordicesimo combattimento e l’uomo di Anversa il cinquantacinquesimo confronto con solo quattro sconfitte. Tuttavia al primo round l’italiano sorprendeva Scillie con una potentissima sventola di sinistro. Questi crollava al tappeto per sette secondi; il colpo fosse stato leggermente più preciso gli avrebbe fatto cogliere una fulminea vittoria. La grande esperienza del campione europeo permetteva a questi di riprendersi bene e dal secondo round far trionfare la sua magnifica impostazione tecnica che non dava scampo all’immaturo ma grande pugile italiano. Irrequieto e giramondo Bernasconi partiva per l’Argentina dove si comportava con onore. Al suo ritorno a Milano, dopo aver perso nuovamente con Scillie, senza titolo in palio, inanellava una lunga serie di prestazioni vittoriose che lo portarono in vetta alle classifiche europee. Il belga aveva abbandonato il titolo campione d’Europa dei pesi gallo, optando per la categoria superiore, ed il nostro con il francese Nicolas Petit-Biquet veniva designato a contendersi il titolo vacante. Ancora digiuno di tecnica pugilistica Bernasconi impostava il combattimento sulla superiore vigoria fisica e faceva suo il match diventando il quarto pugile italiano a sedersi sul trono continentale e il primo della sua categoria. Chiamato a Madrid contro il campione del mondo Al Brown pur battuto disputava un grande combattimento e il mese dopo al Littoriale di Bologna schiantava le velleità di Rinaldo Castellenghi, difendendo contemporaneamente le sue due corone, quella italiana e quella d’Europa. Ancora la Spagna lo allettava, questa volta a Barcellona, metteva in palio il titolo continentale contro Carlos Flix. Non molto migliorato in fatto di tecnica Bernasconi sbagliava pure tattica e al termine delle quindici riprese, la parità sostanziale non veniva accolta ed un verdetto discutibile lo privava del titolo. Una lunga permanenza negli Stati Uniti d’America non gli permise di difendere il titolo Italiano che gli venne tolto. Al suo ritorno, nel marzo del 1931, sempre con i favori del pubblico, settemila persone affollavano il Palazzo dello Sport di Milano, schiantava l’avversario Lucian Popescu che nel frattempo era succeduto allo spagnolo Flix. Il match, drammatico nella sua brevità, terminava alla terza ripresa quando un devastante crochet sinistro si abbatteva sul mento del rumeno folgorato al tappeto per il conto totale. Il comasco aveva taciuto il suo reale stato fisico; con il destro non perfettamente a posto aveva sorpreso l’avversario che nelle prime due riprese aveva capito di poter osare. Per la seconda volta diventava campione d’Europa, ma i grandi combattimenti che lo aspettavano non gli permisero di difenderlo e abbandonava il titolo. Il confronto con Vittorio Tamagnini, peso piuma, attirava ancora il grande pubblico a Milano, preludio all’assalto al titolo mondiale contro il panamense Al Brown. Avremmo potuto avere un campione del Mondo? Forse si. Le versioni sono controverse. Fatto sta che alla terza ripresa il negro panamense dopo essere stato sbattuto al tappeto dalla devastante potenza di “Pasqualino” si esibiva in tenute talmente evidenti da essere stato squalificato dall’arbitro. Le discussioni si intrecciavano a bordo ring: chi riteneva giusto il verdetto e chi invece diceva fosse prematuro. Sembra infine che un gerarca del partito presente (siamo nel pieno dell’era fascista) abbia imposto la continuazione del match, perché, disse, un italiano non poteva conquistare un titolo mondiale per squalifica. Dopo mezz’ora il combattimento riprendeva ma il furbo Al Brown non si fece più sorprendere ed imponeva la sua grande classe al nostro, che passerà alla storia per essere stato campione del Mondo per mezz’ora. Non gli restava che riproporsi per un nuovo combattimento per il titolo europeo. Nella grande serata in cui Carlo Orlandi strappava il titolo dei leggeri a Sybille, Bernasconi a sorpresa falliva l’assalto al suo vecchio avversario Nicolas Petit-Biquet, da lui battuto due volte in precedenza. Successe che nel corso della quinta ripresa Bernasconi accusava una contusione al braccio destro, reso quasi inservibile per tutto il resto del match. Dopo nove anni di professionismo riduceva di molto l’attività, otteneva una sonante vittoria a Glasgow contro Benny Sharkey e a Zurigo su Carlo Trombetta prima di cedere al sardo Giovanni Masella nel sua ultima apparizione su un quadrato di combattimento. Aveva 33 anni ma un’attività logorante alle spalle. Investiva tutti i suoi guadagni in un’attività commerciale in Africa Orientale finché, persa la guerra coloniale e imprigionato dagli inglesi in Sud Africa, tornava in Patria dopo aver perso ogni bene. Si stabiliva a Como da una sorella fino al momento della sua scomparsa. Fu sicuramente un grande per la sua capacità di eccitare le folle con il suo famoso "swing".
La terza postazione la dedico a Piero Rollo. Fu un grande della categoria. Nato da padre pugliese trapiantato a Cagliari per servizio e da madre sarda, Piero Rollo possedeva quelle doti di tenacia, temperamento e tanto orgoglio, tipiche degli uomini della terra dei suoi avi. Era dotato di grande classe e di notevole tecnica che gli permisero di raggiungere traguardi importanti nei quattordici anni di carriera. Ventenne si laureava campione d’Italia dilettanti a Vigevano nei pesi mosca. Nel 1950 passava al professionismo con riluttanza e lasciava momentaneamente la boxe per un paio d’anni, tentato dalla passione per il calcio. Riprendeva con decisione ed impiegava cinque stagioni con 24 combattimenti disputati (venti vittorie, tre pareggi ed una sola sconfitta in Spagna) prima di riuscire ad emergere in campo nazionale. Una lenta maturazione che non gli impedì di emergere anche in campo internazionale. A Cagliari nell’aprile del 1955 raggiungeva il primo traguardo superando un brillante Roberto Spina, un pugile romano dotato di classe e buona tecnica. Fu una vittoria di forza: un destraccio di Rollo causava un’incrinatura ad una costola del rivale all’ottavo round e da quel momento ebbe la strada spianata verso il titolo. Non ebbe rivali in Italia in quel momento e difese la corona due anni dopo contro l’aretino Giancarlo Dugini. A Varese, il match bellissimo per la caparbia volontà dello sfidante, si risolse prima del limite a pochi secondi dalla fine. Dugini, sfibrato dal possente lavoro al corpo che Rollo seppe imporre, veniva fermato dal getto della spugna. Il cagliaritano cresceva per gradi, lentamente, ma con sicurezza, ed era pronto per il confronto con Mario D’Agata. In palio il titolo italiano del primo e quello europeo del secondo. Era il 12 ottobre 1958 e trentamila spettatori gremivano gli spalti dell’Amsicora. E’ stato un capolavoro tattico a permettere al piccolo sardo quello di battere un campione ancora validamente sul quadrato. Doveva affrontare per la prima volta le quindici riprese e per almeno tre round costrinse D’Agata ad adeguarsi ad un avvio tranquillo, riservando energie per il finale, dove sapeva essere la maggior forza del rivale. Quando D’Agata si accorse del tranello e mise in moto la sua agguerrita macchina da pugni, trovava la precisa reazione di Rollo, capace di contrastare il campione in carica proprio sul suo terreno preferito, la lotta a corta distanza. Fu una vittoria di misura che D’Agata contestava asserendo che il pareggio sarebbe stato più giusto. Il fattore campo nell’occasione ha avuto il suo peso. Due mesi dopo abbandonava il titolo italiano per dedicare le sue migliori energie a quello europeo che difendeva una prima volta, sempre davanti al pubblico cagliaritano, contro lo spagnolo Juan Cardenas. Questi vantava un successo su di lui ottenuto tre anni prima a Milano. Presentatosi in non perfette condizioni fisiche Rollo seppe tenere a bada lo spagnolo mantenendo il titolo con un pareggio molto stretto che lo penalizzava ma gli permetteva di mantenere la corona. Quattro mesi dopo era Scarponi a subire la possente azione del cagliaritano, diventando falloso al punto da rifilare una testata malandrina che apriva una larga ferita al sopracciglio sinistro del campione europeo. Il marchigiano naturalmente subiva una giusta squalifica. Era questa una difesa volontaria ed un mese dopo dovette recarsi a Londra per incontrare l’imbattuto irlandese Freddy Gilroy, sfidante ufficiale. Nella capitale britannica il fattore “campo” ancora una volta ha avuto il sopravvento. Al termine di una gara volitiva aveva quantomeno raggiunto il pareggio che gli avrebbe consentito di mantenere la corona. Rollo aveva 33 anni, un’età che per molti poteva voler dire il finale di carriera. Ma il sardo con testardaggine ricominciava la trafila e dopo sette successi su uomini importanti attaccava il titolo nazionale nelle mani del livornese Mario Sitri. A Cagliari davanti a 10.000 spettatori Rollo macinava lo spigoloso avversario e nettamente gli strappava il titolo, che difendeva a denti stretti da Ugo Milan in un combattimento reso difficile da un infortunio al “destro” avvenuto nel quinto round. Una avvincente ultima ripresa gli permetteva di raggiungere il pareggio e salvare la corona. La sua buona quotazione gli valeva un combattimento per il titolo mondiale a Rio de Janeiro contro il fortissimo Eder Jofre, incontro perso per ferita al nono round dopo un combattimento disputato con la sua proverbiale generosità La bella prestazione gli procurava un’altra occasione al titolo europeo. Il campione in carica il belga Pierre Cossemyns accettava la sede cagliaritana e nel novembre del 1961 il match aveva luogo. Rollo sbagliava tattica lasciando troppo spesso l’iniziativa al belga, buon tecnico ma mediocre incassatore. Questi, per quattro volte veniva gettato al tappeto dai forti colpi del sardo senza che l’ineffabile arbitro lussemburghese lo contasse. La superiorità del nostro alla fine risultava chiara ma il verdetto premiava il campione in carica tra le vibranti proteste del pubblico. Cinque mesi dopo Cossemyns concedeva la rivincita al Palais des Sports di Bruxelles. A 35 anni Piero Rollo compiva un’impresa eclatante. Il combattimento ebbe un inizio calmo. I due si conoscevano bene e diventava incandescente perché il belga, ferito al sopracciglio destro, si lanciava rabbiosamente sul nostro che accusava brevemente. All’inizio del quinto round Cossemyn si gettava all’attacco deciso a finire l’incontro, ma un micidiale sinistro al fegato lo inchiodava al tappeto tra l’irrefrenabile gioia dei molti minatori italiani calati a Bruxelles ad incitare il nostro campione, nuovamente in cima ai valori continentali. Alla sua porta bussava l’ex campione del mondo Alphonse Halimi in cerca di rilancio ed il match si disputava due mesi dopo in Israele allo Stadio di Giaffa alle porte di Tel Aviv. L’insolita sede era stata scelta dagli organizzatori in quanto il franco algerino da sempre combatteva con la stella di David stampigliata sui pantaloncini. Il combattimento fu molto equilibrato ma di un punto la vittoria veniva assegnata allo sfidante. Scattava allora la clausola della rivincita da disputarsi in Sardegna. Quattro mesi dopo l’atteso confronto all’Amsicora andava oltre le più rosee previsioni. L’anziano pugile cagliaritano capovolgeva il pronostico sfavorevole costringendo il temibile avversario in un combattimento alla corta distanza, voluta ed imposta per l’intero arco delle dodici riprese, dove l’ancor valido sinistro di Halimi veniva facilmente neutralizzato. Per la terza volta Piero Rollo conquistava il titolo europeo. I miracoli però ad un certo punto svaniscono. Rollo lasciava la corona nelle mani del più giovane e fresco spagnolo Mimoun Ben Alì a Barcellona nel luglio dell’anno successivo. Rapidamente si avvicinava il momento del ritiro che avveniva all’età di trentasette anni con una vittoria su Rafael Fernandez a Genova. E’ stato un grande della categoria. Da sempre Impiegato al Genio Civile, dal 1972 finalmente poteva dedicarsi alla pittura con numerose mostre collettive e personali.
Il quarto posto spetta a Franco Zurlo. Il dopo Burruni ci presenta un altro campione che onorerà il pugilato italiano. Lasciato il dilettantismo a venticinque anni, sarà protagonista sul ring ancora per tre lustri. Peso gallo naturale, il brindisino tra i “puri” conquistava il titolo italiano tre volte consecutivamente: nel 1962 a Modena, nel 1963 a Pesaro e nel 1964 a Roma. Disputava con la nazionale undici combattimenti subendo due sole sconfitte intervallate dal campionato mondiale militari a Città del Lussemburgo nel 1962 e a Francoforte l’anno dopo. A Napoli nel 1963 vinceva la medaglia d’oro ai Giochi del Mediterraneo e partecipava senza fortuna alle Olimpiadi di Tokio nel 1964. Particolarmente intelligente, esercitava freddezza e potenza sul ring. Intraprendeva quindi la professione che sul finire del secondo anno di attività lo vedeva salire in cima ai valori italiani con la conquista del titolo, che era vacante, ai danni di Tommaso Galli. Questi, disorientato dalla guardi destra di Zurlo, non seppe trovare la giusta contraria finendo battuto chiaramente. Il match si era disputato al Teatro Giacomini di Latina. Successivamente respingeva lo spezzino Antonio Sassarini a Subiaco nel giugno del 1967 e otto mesi dopo a Brindisi. Con molte difficoltà la prima, ma con pieno merito nella seconda sul ring casalingo. Il mantenimento del titolo italiano lo proponeva ad un confronto con Tore Burruni per quello europeo. Disputava un match gagliardo ma non abbastanza per scalzare dal suo piedistallo una vecchia volpe come il sardo. Difendeva lo corona nazionale ancora un paio di volte: a Campobasso su Carmelo Massa per squalifica e con un poco di fortuna a Bologna contro un Farinelli ispirato come non mai. Zurlo, apatico e fuori forma agguantava, un verdetto di parità con un’ultima ripresa disperata nella quale infliggeva un atterramento all’avversario sulla via di strappargli il titolo. Al suo ventisettesimo combattimento, con la sola sconfitta subita da Salvatore Burruni, a Taurianova coronava l’inseguimento alla corona continentale battendo Mimun Ben Alì al termine di un combattimento poco spettacolare ma condotto con estrema saggezza, contrando senza rischiare l’aggressivo avversario. Franco Zurlo diventava il nono italiano campione d’Europa dei pesi gallo. Il cammino continentale proseguiva con una vittoria per ferita su Francisco Martinez a Caserta, e quella con lo scozzese John McCluskey a Zurigo in una difesa volontaria risultata più dura del previsto per il modo di combattere dello scozzese al limite del regolamento. Concedeva quindi una meritata rivincita al bolognese Farinelli. Questi sbagliava tattica lasciando l’iniziativa al campione. Zurlo, in netto vantaggio al dodicesimo round, smarriva la concentrazione e si faceva cogliere da un destraccio che accusava, riusciva poi a conservare parte del vantaggio accumulato in precedenza. Gli scricchiolii fisici avvertiti nelle ultime prestazioni si palesavano a Londra. Sul quadrato della Albert Royal Hall, con un ginocchio malconcio, resisteva per undici rounds allo strapotere di Alan Rudkin. Praticamente immobile, ferito alla fronte e allo zigomo, chiese la sospensione dell’impari confronto nell’intervallo tra la undicesima e dodicesima ripresa. Due anni dopo tornerà a Londra, sempre sullo stesso ring a sfidare Johnny Clark per il titolo europeo lasciato vacante dallo spagnolo Augustin Senin . L’incontro si fece subito drammatico per una larga ferita riportata dal nostro alla seconda ripresa causata da una violenta testata dell’avversario. Con simile menomazione Zurlo dovette diventare prudente ma la sua superiore classe gli permetteva di rintuzzare ogni attacco per colpire con colpi sferzanti molto applauditi dal pubblico londinese. Le ultime tre riprese lo videro protagonista e finiva spalla spalla con Clark che sul ring di casa veniva favorito dal verdetto. Chi pensava che il brindisino fosse finito si sbagliava di grosso; diradava la sua attività e nel 1975, nell’unico combattimento di quell’anno, strappava il titolo italiano al Ambrogio Franco Mariani. A Milano furono molte le polemiche a fine incontro, per una presunta eccessiva fretta da parte dell’arbitro nel fermare il match con un k.o. tecnico a favore di Zurlo. Un perfetto gancio destro atterrava Mariani il quale, sospinto una seconda volta senza essere colpito, metteva un ginocchio a terra e l’arbitro sospendeva l’incontro. La folla reagiva con lancio di oggetti sul ring, insulti e minacce ai giudici con i tifosi trattenuti a stento dalla forza pubblica. Il 27 agosto il brindisino avrebbe dovuto incontrare lo sfidante ufficiale Salvatore Fabrizio ma a causa di un infortunio non poté combattere e decadde. Questi conquistava il titolo ma lo abbandonava quasi subito dopo essersi impadronito dell’europeo. Ritornava quindi ancora in corsa il brindisino e riconquistava la corona di campione d’Italia per la terza volta. Rimessosi in pieno dai vari infortuni, snello e scattante come ai bei tempi a Latina surclassava il modesto Teodoro Corallo, aggressivo e generoso ma dominato dalla sontuosa tecnica di Zurlo. Gli intrecci tra campioni si infittiscono. Salvatore Fabrizio aveva conquistato la corona continentale e quale migliore occasione poteva essere quella di far incontrare i nostri due migliori pesi gallo del momento? A Selva di Fasano nel salone dei Congressi i due si sono dati aspra e dura battaglia dove l’agonismo prevaleva sulla tecnica. Fabrizio, sconcertato dai continui cambi di guardia del furbo brindisino, non riusciva a far valere la sua giovinezza subendo la classe e l’esperienza di Zurlo, il quale, sette anni dopo, riconquistava il titolo di campione d’Europa. Inizia così un finale di carriera da incorniciare: a Forte Village di Santa Margherita di Pula il francese Jacky Bihin veniva dominato e costretto alla resa in otto riprese. Tre mesi dopo, sullo stesso ring, era il nord irlandese Paddy Maguire a subire la stessa sorte. Ormai Franco Zurlo combatte solo in difesa del suo titolo e rischia sul quadrato di Viareggio, dove si salva con l’esperienza dal vigoroso assalto di Esteban Eguia, recuperando nell’ultima ripresa il vantaggio che lo spagnolo aveva accumulato in precedenza. Ancora un pareggio gli permette di rimanere campione. A Lugo rimanda ad un nuovo esame lo sfidante Alfredo Mulas di quattordici anni più giovane. Come sempre l’esperienza e la classe hanno contenuto il ritmo e l’aggressività del giovane avversario. Un mese dopo a Roccamorfina superava con autorità il napoletano Franco Buglione, costretto ad abbandonare al decimo round. Avrebbe voluto lasciare l’attività con la corona europea sul capo ma una buona offerta dalla Spagna lo indusse ad un nuovo combattimento. A Vigo il 16 settembre del 1978. fu una vera corrida con lo spagnolo Juan Francisco Rodriguez al quale, un arbitro succube dell’incandescente partecipazione del pubblico, concedeva ogni tipo di scorrettezze. Ferito in più parti ma orgogliosamente irriducibile rendeva dura la vita allo sfidante, al quale tutti pronosticavano una facile vittoria Solo due punti dividevano i contendenti alla fine del match. Perso il titolo disputava ancora due incontri prima di ritirarsi quarantenne con 50 combattimenti dei quali solamente sei perduti. Gli rimase il rimpianto di non aver mai potuto combattere per il titolo mondiale. Con i guadagni del pugilato divenne titolare di un complesso sportivo, con piscina, campi da tennis e bocce a Roma.
La quinta posizione la riservo a Simone Maludrottu. Allievo del maestro Egidio Pellegrino a sedici anni debutta nella categoria più piccola. Salendo di peso vince un campionato italiano di terza serie e di seconda nello stesso anno, il 1996. Due stagioni dopo si classifica al posto d’onore agli assoluti di Foggia battuto in finale da Flaviano Salvini. Un curriculum dilettantistico onorevole ma che non lascia trapelare il campione che sarebbe sbocciato tra i professionisti. Nessuno avrebbe immaginato una simile esplosione capace di evocare i grandi della categoria Una vera stella nell’asfittico mondo dei pesi gallo che da quando nel 1998 Ciaramitaro abbandonava la corona di campione d’Italia, non ha più trovato un titolare. Una lenta maturazione lo ha portato nel giro di quattro anni, con 12 vittorie e una sconfitta a colmare il vuoto nell’albo d’oro della categoria. A Olbia il 18 settembre 2003 conquistava il vacante titolo italiano battendo per ferita ma nettamente Emiliano Salvini, fratello di quello che gli aveva negato la fascia tricolore tra i dilettanti. Questo successo dava il via ad una cavalcata europea inimmaginabile. Solo in Sardegna credevano nelle sue possibilità e fecero in modo che Frederic Patrac scendesse a Olbia per una difesa volontaria. Sul ring del Geo Village il grintoso francese perdeva il titolo dopo un match di rara intensità, stordito dai possenti colpi d’incontro del sardo, pronto a rinverdire le imprese di Rollo e Burruni e a unire il suo nome a quelli prestigiosi dei suoi conterranei. A Madrid lo aspettava lo sfidante ufficiale, il temibile Karim Quibir Lopez. Sul ring del Palacio de Vistalegre davanti a settemila spettatori urlanti, tutti in favore del madrileno, Maludrottu dimostrava di che stoffa fosse. Né il pubblico né la sfarzosa entrata di Quibir su una biga trainata da due cavalli e guidata da un auriga vestito da centurione romano, lo impressionarono più di tanto. L’imbattuto avversario fece di tutto per conquistare la vittoria ma l’intelligenza tattica, le doti di fondo ed il tempismo del campione in carica, ebbero la meglio. In poche parole, la classe del sardo ha avuto modo di evidenziarsi ulteriormente. Ormai tutta la sua attività è basata sulle difese del campionato europeo. A Cagliari il 27 maggio 2005 liquidava con uno spettacolare fuori combattimento il belga di origini magrebine Hassan Naji e a Olbia sei mesi dopo l’italiano residente in Belgio Carmelo Ballone, pugile ostico e buon combattente, lo impegnava duramente. Nell’aprile dell’anno successivo si recava a Belfast dove sul ring dell’Andersonstown Leisure Center, con grande sicurezza ribaltava i ruoli sul ring trasformandosi in attaccante, costringendo lo sfidante Damaen Kelly in difesa. Con colpi nitidi ed efficaci si guadagnava i favori della giuria. Senza tregua, due mesi dopo sul ring del Palazzetto dello Sport di Santa Teresa di Gallura, chiudeva definitivamente il conto con lo spagnolo Katrim Quibir Lopez. Il tempismo e la personalità del campione sardo toglievano allo sfidante ogni possibilità di successo, terminando battuto e sull’orlo di una cocente disfatta. Maludrottu chiudeva l’anno con una pirotecnica lezione a Damaen Kelly, cancellando le polemiche sorte dopo il match di Belfast. In meno di tre riprese, potente e devastante, costringeva i secondi dell’irlandese a gettare la spugna. La settima difesa del titolo europeo lo riportava in Inghilterra. A Londra il 9 marzo 2007 respingeva ai punti Jan Napa prima di esibirsi sul ring di Marina Piccola di Cagliari contro il francese di origini algerine Mohamed Bouleghcha in una difficile contesa. .In serata di scarsa vena, Maludrottu non trovava la solita scioltezza nei colpi, ma soprattutto appariva carente di idee. Metteva un ginocchio al tappeto sotto un terribile colpo al fegato nel corso del settimo round. A questo punto ritrovava se stesso e dando prova di essere un campione vero, con un finale di gara degno della sua fama, costringeva l’avversario ad una affannosa difesa, rimontando lo svantaggio iniziale. Due punti di vantaggio gli davano la vittoria. L’ottava contesa europea, risultata meno brillante delle precedenti, probabilmente trova una spiegazione nel fatto che il sardo aveva già il pensiero rivolto al Giappone, dove lo attendeva il primatista mondiale Hosumi Hasegawa. Abbandonata la corona continentale, sfidava sul ring del Prefectural Gymnasium di Osaka il campione mondiale WBC dei pesi gallo il 10 gennaio 2008. Un grande Maludrottu non riusciva nell’impresa dopo un match incandescente che ha dimostrato quanto fossero fondate le sue aspirazioni. Una gravissima ferita sull’arcata sopracciliare destra del giapponese in altre parti del mondo avrebbe causato la sospensione del match a favore dell’italiano. Viceversa il combattimento fu fatto continuare fino a che la maggior velocità d’azione del giapponese ha potuto imporsi. Il pugile di Olbia ha solo trenta anni e ha davanti a sé ampi spazi nella categoria superiore. Dopo pochi combattimenti attaccherà l’europeo dei supergallo nelle mani di Rendall Munroe. A Nottingham, a casa del rivale, il 20 novembre 2009 il sardo disputa un grande match, ma non è bastato. In qualsiasi altra località il verdetto non gli sarebbe stato negato; la verità la si notava sui loro visi a fine combattimento; fresco e senza segni il nostro, stremato e con il volto insanguinato Munroe. Sul ring di casa sua, all’inglese è stato permesso di attuare una tattica fuori da ogni regola. Controllato e colpito da fiondanti colpi d’incontro, il campione d’Europa si gettava sull’italiano spingendolo irregolarmente sulle corde, senza mai essere richiamato dall’arbitro spagnolo. In questo modo poteva scaricare serie inesauribili di colpi sulla stretta guardia di Maludrottu, inefficaci ma che davano modo di giustificare un certo vantaggio da assegnare al pugile inglese. Il match era pure valevole come semifinale al titolo mondiale versione WBC e molto probabilmente al nostro verrà data una nuova opportunità al titolo europeo. Non è stato così e Simone abbandonava l’attività.
Lo scranno numero sei va a Gino Cattaneo. Non credo che nella storia del pugilato italiano esista un altro pugile a lui paragonabile. La boxe è stata la sua vita e l’ha interpretata con passione e volontà. Quattordici anni di professionismo dei quali almeno otto ad alto livello, pongono Gino Cattaneo nell’Olimpo dei grandi pugili italiani. Nato a Mede Lomellina, in provincia di Pavia, il padre voleva farne un ragioniere e lo mandò a Milano per gli studi. Gino, carattere ribelle e scanzonato, preferiva il divertimento allo studio. Scopriva la boxe alla “Tonoli” e dopo pochi combattimenti da dilettante abbracciava il mondo dei “prize fighters” a soli 19 anni. Venne definito una persona di grande onestà e bontà sopra le righe ma anche atleta che non trovava mai scuse per una prestazione inferiore alle attese. Dotato di uno stile sobrio, senza fronzoli ma redditizio, piaceva molto al pubblico. Il suo carattere contrastava con lo stile di combattimento forsennato ed aggressivo, ma, aggiungo io, non si disputano più di 180 combattimenti senza mai perdere una sola volta prima del limite, se non si hanno, oltre al fisico, cognizioni tecniche sopra la media. Le sconfitte nel suo curriculum sono tante, la maggior parte delle quali ottenute a fine carriera quando spendeva il suo buon nome per poter lucrare una borsa decente, essendo quello il suo unico lavoro. Cattaneo non chiedeva mai il nome dell’avversario, bastava pagarlo bene e lui, peso gallo incontrava anche pesi leggeri. Percorse l’Italia e l’Europa in ogni angolo ma per il debutto non si scordò del suo paese. Esordiva a Mede Lomellina con un successo prima del limite sul modesto De Marchi e dopo cinque vittorie a Mestre subiva la prima sconfitta . Giordano Vigorelli era un discreto peso leggero,ma come detto più sopra “Gino” non faceva questioni di peso; bastava una buona borsa e lui era disponibile. Tra le tante vittorie si aggiungono le sconfitte con Gino Bondavalli e Maurice Huguenin, bastonato ben bene sul ring di Ginevra ma favorito dal verdetto. Tutte queste buone prestazioni lo qualificarono a sfidante al titolo italiano dei gallo nelle mani di Edelweiss Rodriguez, con il quale aveva pareggiato in precedenza. A Parma, al Teatro Reinach, il lomellino sbalordiva per la maniera netta ed autoritaria con cui toglieva il titolo al riminese. Un mese dopo era Leone Blasi ad inchinarsi alla sua determinazione. Questi, all’Arena del Sole di Bologna, le aveva tentate tutte per conquistare il titolo, conducendo quindici riprese con grande ritmo e volontà. A Ginevra e a Parigi disputa i soliti applauditi incontri che però non lo esimono da onorevoli sconfitte fino a che, a Pavia, gli organizzarono una difesa del titolo contro Antonio Re. All’ultimo momento il confronto venne derubricato ad incontro normale essendo risultato il ring di dimensioni non regolamentari. Vinse brillantemente ed un settimana dopo a Brescia concedeva la rivincita ad un Rodriguez scalpitante, presentatosi nel pieno dei suoi mezzi e deciso a vincere. Il match, bellissimo, con il pubblico in piedi ad applaudire i due gladiatori, dopo un iniziale vantaggio dello sfidante, vedeva la graduale rimonta del campione in carica che terminava alla grande. Il pareggio premiava la prova esaltante di Rodriguez, ma toglieva qualcosa a Cattaneo che i più avevano visto chiaro vincitore. Instancabile, il pavese tre mesi dopo si porta a Firenze per un combattimento di ordinaria amministrazione. Così scriveva Il Pugilatore, l’organo ufficiale del pugilato italiano: “Gino Cattaneo nella disputa del campionato italiano contro Magnolfi è stato vittima di un‘appropriazione indebita. Ammettiamo che il fiorentino sia stato in gran forma, che Cattaneo sia calato nelle due ultime riprese, ma non possiamo concepire la decisione dell’arbitro Graziani di Genova”. Il calo nelle riprese finali, che non avrebbero dovuto influire sul verdetto in quanto il margine di vantaggio era talmente alto, fu dovuto in massima parte alla fatica di rientrare nei limiti di peso dei gallo. Decise quindi di passare tra i piuma e per un paio d’anni non pensava alla sua categoria naturale, anche perché poco amante dei sacrifici della palestra. Incontrava tutti i migliori dell’epoca con risultati alterni e nel 1938 al Teatro Monteverdi di La Spezia toglieva la corona a Giuliano Secchi che nel frattempo era diventato il leader dei pesi gallo. Gino, a suo agio a 52,9 kg., si scatenava in un’offensiva entusiasmante e accumulava un sensibile vantaggio che il più tecnico spezzino non riusciva a colmare nelle riprese finali. Ritornato in cima ai valori nazionali, subiva il solito furto in terra elvetica contro Frank Harsen. Ma ciò non gli impediva di sfidare Aurel Toma per il titolo europeo della categoria in quel momento vacante. A Bucarest, ancora una volta in trasferta a casa del competitore, subiva l’ennesima ingiustizia. Davanti a quindicimila spettatori Cattaneo si era dimostrato nettamente superiore all’avversario. Toma si era ferito in uno scontro frontale e immediatamente l’arbitro coglieva l’occasione per squalificare il nostro pugile. Il giudice di parte italiana, Anselmo Villa, indignato si rifiutava di firmare il verbale dell’incontro, ma purtroppo non cambiava nulla. Fallito il primo tentativo continentale il pavese non si scoraggiava riprendendo il suo girovagare, raccogliendo sconfitte,vittorie e buone borse. Il titolo italiano era ancora suo e lo difendeva a Bergamo da Luigi Bonanomi al Teatro Duse, per l’occasione stracolmo di spettatori. Il match tiratissimo ha visto la netta vittoria del campione in carica; lo sfidante forte del pareggio ottenuto sempre a Bergamo con lo stesso avversario si illudeva di poter fare meglio. Cattaneo offriva una prestazione superiore tanto che molti asserirono che da tempo non lo vedevano così in forma. Atterrato due volte e dominato Bonanomi offriva una gagliarda prova ma insufficiente per togliere il titolo al campione in carica. E’ certamente questo il suo periodo migliore e compirà la sua grande impresa che lo collocherà tra i più grandi pugili italiani di sempre. Alla Deutschandhalle di Berlino, incurante del tifo contrario dei diecimila presenti, demoliva in quindici riprese Ernst Weiss divenuto campione dopo aver messo fuori combattimento quell’Aurel Toma favorito da un verdetto ignobile l’anno prima. Cattaneo fu una vera sorpresa per tutti, segnatamente per Weiss che mai si era trovato contro un avversario simile. Ben allenato, in fiato, con dinamismo e potenza ha tirato dalla prima all’ultima ripresa con una continuità impressionante, senza un attimo di indecisione .Il suo competitore, tecnicamente superiore non resse al ritmo impresso da Cattaneo e sportivamente, prima del verdetto ufficiale alzava il braccio al nuovo campione d’Europa. Correva l’anno 1939 e i prodomi della guerra stavano sconvolgendo l’Europa. Gino Cattaneo non ebbe l’occasione di far fruttare il suo momento migliore. Dovette limitarsi ad un’attività nazionale e per prima cosa difese la corona italiana concedendo la rivincita a Giuliano Secchi, questa volta a Milano. Non fu questo un bel combattimento, perché i due si conoscevano troppo bene. Vinse il lomellino ma forse anche i sintomi di una prossima decadenza erano cominciati ad apparire. Infatti due mesi dopo Luigi Bonanomi, sul ring amico di Lecco, gli toglieva con pieno merito il titolo italiano. Erano tempi duri ma gli restava il titolo europeo. La I.B.U., l’ente che aveva governato il pugilato continentale fino allo scoppio della guerra, non aveva più potere in Europa e Cattaneo, sotto l’egida dell’APPE, poté mettere in palio la sua ultima corona contro Bondavalli, suo compagno di scuderia, sapendo di doverla cedere. Il reggiano, in piena forma fisica e mentale, campione d’Italia e d’Europa dei pesi piuma, cercava una terza corona da aggiungere alle prime due. Non fu remissivo Cattaneo , disputando un combattimento pieno di ardore tanto da cadere in piedi nei confronti della “girandola reggiana”. Era il 20 settembre 1941 e, prima di concludere la sua carriera a Ravenna, il 10 maggio 1947, disputava ancora più di settanta combattimenti con quella dignità dimostrata in tante battaglie sul ring. Quindi in silenzio si trasferiva a Garbagnate Milanese dove moriva il 6 gennaio 1989. Mede Lomellina non si dimenticherà del suo campione e dedicherà a suo nome la piazza antistante il Palazzetto dello Sport.
Al settimo posto posiziono Guido Ferracin. Non contava ancora vent’anni quando il rodigino esordiva tra i professionisti. Era dotato di tecnica sopraffina, fondata sulla boxe in linea, preciso a distanza ed efficace nei corpo a corpo, abilità con le quali suppliva ad un fisico non propriamente granitico. Malgrado questa lacuna viene ricordato come uno dei grandi della categoria. Il quarto italiano campione d’Europa dei gallo, il primo dei nostri pugili a vincere il titolo all’estero, in Inghilterra. La sua ascesa in campo nazionale fu subito rapida. Nel giro di una stagione disputava quattordici combattimenti con una sola sconfitta per mano di Paoletti, prontamente riscattata nella rivincita disputata quattro mesi dopo. Ferracin era già pronto per il titolo nazionale, in quel momento vacante. Al Teatro Verdi di Ferrara, davanti ad un pubblico entusiasta, convenuto in gran parte dalla vicina Rovigo, il ventenne rodigino mantenne le promesse superando di misura ma meritatamente un grande Amleto Falcinelli. Chiamato in Spagna subiva la prima bruciante sconfitta da quel possente picchiatore che era Luis Romero. Si riabilitava immediatamente contro Mariano Diaz due volte prima di difendere la sua corona dall’assalto di Corrado Conti, l’imolese bruciato presto dal prematuro confronto con lo scozzese Jackie Paterson, campione del mondo dei pesi mosca. Il match si disputava ancora nella città estense, allo stadio comunale, in una serata rimasta in bilico per una minacciosa massa plumbea gravida di pioggia. Un Conti rinunciatario, con la giustifica di una lussazione al braccio destro, abbandonava al quarto round tra la delusione dei quattromila spettatori presenti. Passava meno di un mese ed eccolo a Saronno, in casa dell’avversario Angelo Caimi, per una facile difesa del titolo. Troppo morbido ed immaturo il saronnese per impensierire il campione, deciso ed autoritario, malgrado la giovane età. Prima di mettere in palio ancora una volta la sua corona di campione d’Italia vola a Manchester dove regola da par suo un quotato suddito di sua Maestà britannica, Stan Rowan. A Roma, con il Teatro Jovinelli esaurito in ogni ordine di posti, Alvaro Nuvoloni impegnava uno svagato Ferracin che solo nella seconda parte del match si imponeva in tutta la sua statura di fine schermidore. Il verdetto che lo favoriva poteva anche essere di parità. Le stigmate di “grande” il rodigino se li conquistava nel febbraio dell’anno seguente a Manchester. L’ex campione del Mondo dei pesi mosca Peter Kane aveva effettuato il salto di categoria e conquistato il titolo europeo dei pesi gallo dopo un drammatico combattimento con il francese Theo Medina. Soprannominato “il Fabbro”, l’inglese mai avrebbe immaginato di essere dominato dalla fine tecnica dell’italiano, il quale, mobile sulle gambe e preciso nei colpi di rimessa, dominava l’incontro. Dopo Bernasconi, Cattaneo e Bondavalli, Ferracin diventava il quarto pugile italiano che occupava il trono continentale. Non soddisfatto, l’inglese chiedeva la rivincita che gli veniva prontamente accordata. Sullo stesso ring di Manchester, cinque mesi dopo, Peter Kane subiva un’autentica umiliazione. Ferracin sottostava ai duri colpi dello sfidante nella prima ripresa ma subito si riprendeva e con il suo agile gioco accettava gli scambi dimostrandosi anche molto efficace. Nella quinta ripresa, l’inglese, sanguinate e barcollante sotto gli effetti di due potenti montanti al mento, veniva salvato dal getto della spugna. Il rodigino nel frattempo aveva abbandonato il campionato italiano. Dopo una buona serie di successi casalinghi veniva superato a Londra da Danny O’Sullivan, ma si ripagava subito dopo a Belfast sull’irlandese Eddie Doran. Veniva quindi chiamato a Barcellona per una difesa a dir poco impossibile contro quello che il suo maestro Nando Strozzi definirà la sua bestia nera. La Plaza de Toros Monumental offriva una spettacolosa cornice di pubblico in un torrido agosto del 1949. Il match iniziava con un chiaro dominio del tecnico italiano, capace di eludere la spaventosa potenza del “matador” spagnolo. Con quattro riprese per Ferracin, una pari e una per Romero si iniziava il settimo round quando il nostro si scopriva un attimo e velocissimo il crochet destro dello spagnolo lo centrava in pieno per il più classico dei KO. La brutta sconfitta non intaccava la sua voglia di continuare. Ad Algeri superava lo zingaro Theo Medina, un duro scoglio per tutti. Quindi passava tra i pesi piuma a sfidare il campione d’Italia in carica Alvaro Cerasani. Un gancio sinistro al mento, improvviso, troncava il suo tentativo dopo meno di due minuti. Riprendeva la sua marcia Ferracin ma le sconfitte con Tijani, Clayton e Sneyers lo convinsero a soli ventisei anni a ritirarsi. Non si sarebbe mai rassegnato ad essere figura di secondo piano e lo rivedremo protagonista attorno al ring come apprezzato maestro a Vigevano dove si era trasferito. In una torrida estate del 1973, quando si godeva le meritate vacanze con la famiglia sul litorale adriatico, un infarto lo toglieva all’affetto di tutti a soli quarantasei anni.
Per l’ottava collocazione individuo Ciro De Leva. Allievo di Geppino Silvestri alla gloriosa Fulgor di Napoli, il piccolo Ciro De Leva ha toccato vertici importanti nella sua carriera, che nessuno avrebbe potuto pronosticare all’inizio della stessa. A ventuno anni era già professionista, alternando la boxe al suo lavoro di tassista. In possesso di un pugilato molto dispendioso non poteva essere additato come esempio di stile. Alla carenza tecnica suppliva con una carica eccezionale e immenso orgoglio. Al suo dodicesimo combattimento si laureava campione italiano dei pesi mosca battendo a Napoli il matesino Giovanni Camputaro. E’ stato il quarto napoletano ad iscrivere il proprio nome nell’Albo d’Oro dei campioni d’Italia. Pur conquistando il titolo dei pesi mosca nel match disputato a Napoli, Camputaro, più esperto e scorretto, non gli permise di esprimere in pieno le sue doti. Solo sul finire del combattimento De Leva prendeva un esiguo vantaggio che gli permetteva di aggiudicarsi la corona. Durava poco il suo regno; cinque mesi più tardi Franco Cherchi lo spodestava a Trezzano sul Naviglio, località a pochi chilometri da Milano, sotto il tendone del Circo Medini. Malgrado la sconfitta disputava una semifinale alla corona europea superato dal francese Antoine Montero a Cluses in Francia. In difficoltà nel fare il peso nei mosca, optava per la categoria superiore. Subito la sfida per il campionato d’Italia lasciato vacante da Giorgetti. Sul neutro di Milano superava dopo un match equilibrato il torinese Paolo Castrovilli, costretto a rifugiarsi in scorrettezze per contenere la carica del napoletano. Liquidava Giuseppe Fossati con una perentoria prestazione sul ring di Chiavari ed il rapido successo gli valeva la qualifica di sfidante al titolo europeo contro l’inglese John Feeney. Il titolo era vacante perché Valter Giorgetti non aveva potuto difenderlo. Iniziava il periodo migliore della sua breve carriera. A Salerno il 14 novembre 1984 il tassista napoletano, finito al tappeto al settimo round, sosteneva un combattimento durissimo superando con pieno merito il duro gallese John Feeney, diventando il quattordicesimo pugile italiano campione d’Europa dei pesi gallo. Per sette volte metteva in palio la corona in un crescendo entusiasmante. A Casella nei pressi di Genova superava, con il cuore in mano, lo spagnolo José Ignacio Martinez Antunez prima di travolgere, due mesi dopo a Messina, l’ex campione Giorgetti. Sempre a due mesi di distanza, questa volta a Lerici, demoliva in cinque riprese lo spagnolo Enrique Rodriguez Cal. A Mercatino Conca, un paesino nell’entroterra pesarese con il ring sistemato al centro della piazza, concedeva la rivincita a Martinez Antunez battendolo molto chiaramente, malgrado un infortunio alla mano destra, accusato nella terza ripresa. Instancabile, eccolo a Eboli disputare il match più impegnativo sostenuto fino a quel momento. “Mitraglietta “ Alain Limarola, un tunisino naturalizzato francese, inesauribile assalitore nonché incassatore formidabile, lo impegnava allo spasimo e Ciro dovette fare appello alle più riposte energie per salvare il titolo con una decisione divisa da parte dei giudici. Lasciava passare quattro mesi ed a Cosenza una nuova durissima sfida lo attendeva. Di fronte all’inglese Ray Gilbody usufruiva di un verdetto casalingo; ma forse un pareggio sarebbe stato più giusto. In ogni caso avrebbe mantenuto il titolo. L’ultima difesa la disputava ad Agnone, battendo senza rischiare più di tanto lo spagnolo Vicente Fernandez. Lo attendeva finalmente il sospirato match mondiale e abbandonava il titolo continentale che deteneva da quasi due anni. A Torino il 4 ottobre 1986 il venezuelano Bernardo Pinango, campione WBA, si dimostrava troppo forte per il generoso napoletano. De Leva aumentava di peso e dopo un solo combattimento tra i piuma, saggiamente decideva che il cammino andava interrotto al ventottesimo combattimento di una carriera breve ma altamente significativa.
Sul nono scranno piazzo Giuseppe Fossati. E’ stato un pugile di difficile classificazione perché non assomigliava a nessun altro che si ricordi. Non è stato un picchiatore ma picchiava sodo e faceva male, era un incontrista ma sapeva attaccare al tempo giusto. Intelligenza e continuità d’azione erano le sue doti peculiari. Bastarono solamente quindici combattimenti al cremasco e inaspettatamente si assise sul trono dei pesi gallo italiani. Una sorpresa perché nel suo record non figuravano nomi importanti. A Milano contro Luigi Tessarin, in un Palalido gremito di tifosi delle due sponde, Fossati si é dimostrato più abile nell’imporre la battaglia sulla distanza a lui più congeniale con il suo allungo superiore. Conteneva il ritorno grintoso del rivale e di stretta misura si assicurava la vittoria. Solo sette mesi godeva di questo primato; all’orizzonte si profilava la figura di un avversario che diventerà parte essenziale del suo cammino. Il romagnolo Valerio Nati, sulla via di diventare quel campione che tutti abbiamo conosciuto, nella sua Forlì gli toglieva momentaneamente il titolo che riconquistava a Silvi Marina, superando facilmente Giancarlo Ravaioli di Pomezia. Nati aveva lasciato il titolo italiano per seguire le sue legittime aspirazioni europee, una strada che avrebbe portato i due leali avversari ad incrociarsi nuovamente. Prima però il cremasco respingeva nuovamente Ravaioli a Pavia e il sardo Roberto Serreli a Cagliari. La nuova sfida con Valerio Nati era alle porte e abbandonava il titolo italiano. Il romagnolo da circa un anno e mezzo campione europeo, metteva volontariamente in palio il suo titolo pensando di bissare il successo precedente sullo stesso avversario. A Lignano Sabbiadoro invece, un Fossati migliorato e che credeva fermamente nelle sue capacità, offriva una prestazione superiore ad ogni aspettativa, atterrava l’avversario alla terza e sesta ripresa e all’unanimità, con quattro punti di vantaggio si laureava campione d’Europa. Non aveva scampo due mesi dopo l’inglese John Feeney, sfidante ufficiale, dominato ai punti e sull’orlo del fuori combattimento. Un Fossati sotto tono a fatica prevaleva sullo spagnolo Jose Luis De La Sagra a Marano Vicentino prima di ritrovare a Bologna un Nati smanioso di rivincite. La rivalità tra i due ha fatto sì che il match si trasformasse in una drammatica corrida che favoriva il romagnolo, dal pugilato meno lineare. Fossati, malgrado un’ampia ferita al sopracciglio, accettava la lotta e con un gancio sinistro alla mascella atterrava il rivale, iniziando una lenta risalita nel punteggio che lo portava in parità alla fine del match. Perdeva la corona europea battuto (verdetto molto discusso) dal compagno di scuderia Valter Giorgetti ed un successivo tentativo contro Ciro De Leva per il titolo italiano risultava infruttuoso. Il rinvio di un mese aveva demotivato il cremasco. Annunciava il suo ritiro per dedicarsi alla gestione del suo bar a Mozzanica.
Al decimo posto colloco Valter Giorgetti. Voleva suonare la chitarra, finì per suonare i suoi avversari. Walter si avvicinava al pugilato quando da giovane voleva comperarsela. Il padre che era stato pugile dilettante gli consigliava allora di darsi alla boxe. Ottimamente impostato alla “Gallaratese” dal suo insegnante Aldo Maistro, brevissima fu la sua carriera dilettantistica con due titoli di campione lombardo e due volte semifinalista ai campionati italiani. Alternava l’attività al suo mestiere di incastonatore di gioielli. L’Italia in quel momento dominava l’Europa nella categoria e Giorgetti divenne in breve il terzo galletto del nostro pollaio. Dopo undici combattimenti con una sola sconfitta per ferita, a Pineto degli Abruzzi, carpiva il titolo italiano che Fossati aveva abbandonato. Roberto Serreli veniva dominato con azione incalzante sostenuta da buona varietà di colpi. Giancarlo Ravaioli a Pesaro subisce sorte peggiore in otto riprese. Paolo Castrovilli lo impegnava duramente al Palasport di Bergamo per un pareggio che gli permetteva il mantenimento della corona che, però, subito dopo abbandonava per traguardi più importanti. Il compagno di scuderia Giuseppe Fossati gli aveva dato una possibilità di conquista del titolo europeo ed il gallaratese non si lasciava sfuggire l’occasione di diventare il quattordicesimo italiano campione continentale. Il discusso verdetto con il quale aveva battuto l’amico rivale sul "neutro" di Sciacca, nello splendido scenario di Torre Macauda, veniva cancellato dalle successive difese in cui lo vedeva baldanzoso protagonista. A Roseto degli Abruzzi in sette round spazzava via lo spagnolo Ignacio Martinez Antunez. A Campobasso, al termine di un vibrante combattimento respingeva l’inglese John Feeney mentre a Treviso il franco-algerino Kamel Djadda resisteva solo cinque round. Una imprevista sconfitta prima del limite con l’americano Jeff Whaley (si era presentato al combattimento fuori forma e poco allenato) gli causò l’impossibilità di difendere il titolo europeo. Ma la sconfitta ebbe il potere di incrinare la volontà e gli stimoli del guerriero di Gallarate. Nel frattempo la corona continentale era stata vinta dal napoletano Ciro De Leva. A Messina dopo polemiche che si sono trascinate per mesi, Giorgetti giunse all’atteso confronto psicologicamente impreparato e subiva una sconfitta che lo indusse a chiudere con la boxe. Ma non per sempre. In seguito ivenne maestro di pugilato e con l’amico e collega Maurizio Ronzoni apriva una palestra, la Thunder Boxing Team di Casorate Sempione. Terminata questa nuova esperienza è diventato poi arbitro-giudice di pugilato.
Pietro Anselmi
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